ROBERTO MY  "Flares"
   (2019 )

Il viaggio di ritorno dall’ufficio a casa dura circa quarantacinque minuti.

Appena esco avviso mia moglie, poi chiamo mammà perché mi sembra giusto: in una decina di minuti me la cavo, poi mi posso dedicare al mio angolo di intimità tra la pazza folla del metrò meneghino. Nel lettore mp3 tengo i dischi che devo recensire: a volte è un piacere, a volte meno. Ma non si sa mai, ho sempre una compilation (scusate: oggi si chiama playlist) d’emergenza alla quale mi rivolgo quando l’album del giorno è una pallazza insostenibile: si intitola “metrò” – bella fantasia – e contiene una ventina di canzoni che cambio a rotazione ogni paio di mesi. La playlist “metrò” è buona per tutte le occasioni: se sono stanco, nervoso, scocciato, assonnato, euforico: mi salva comunque, specie quando partono “Transgender dysphoria blues” degli Against Me! o “The authority song” dei Jimmy Eat World.

Bene: negli ultimi quindici giorni la playlist “metrò” è rimasta dormiente, né ho nutrito alcun dubbio su cosa mettere in repeat ad ogni viaggio, ivi comprese alcune mattine in cui ho coperto il tragitto casa-ufficio senza la compagnia di mia moglie (siamo colleghi) e quindi me lo sono ben volentieri sparato pure all’andata. Perché è ottimo anche in inizio di giornata, non solo in chiusura.

Sto parlando dei trentaquattro minuti di “Flares”, che su etichetta I Dischi Del Minollo segna il ritorno (la conferma? Il rispolvero? La rinascita? La riaffermazione?) di Roberto My, già fondatore e motore dei Volcano Heart, band di stanza a Bologna che conobbe una certa notorietà a cavallo del millennio. Esauritasi la parabola dei Volcano Heart con “Afternoon pleasures” (2005), “Flares” rappresenta di fatto il debutto di Roberto come solista, un lavoro sorprendente per lucidità, franchezza, coesione e coerenza, nonché per il rispetto e la devozione tributati ai trascorsi.

C’è qualcosa di mirabilmente desueto nelle sei tracce che lo compongono, inzuppate di una vitalità antica che infonde nuova linfa ad una scrittura sì lineare, ma di ineffabile efficacia e corposa sostanza: c’è in “Flares” tutta l’incrollabile fedeltà alla linea di questa figura defilata, quasi un reduce di quel sottobosco indie italico un po’ perso nel tempo, ma sempre vivissimo sotto la cenere.

Il bello di dischi così sta nella loro semplicità: riportano tutto a casa, e ci mettono la faccia, senza troppi calcoli o ragionamenti. Pezzi dritti in 4/4 più o meno velocizzati, con il trio (insieme a Roberto ci sono Micol Dal Pozzo al basso e Pasquale Montesano alla batteria) a macinare indefesso rigurgiti di anni novanta tra Bob Mould e J Mascis, ma senza esagerare. Lo stile vocale di Roberto e certe inflessioni sul ritornello dell’iniziale, suadente “Motherland” ed in certe anse sinuose della lunga ballata rallentata di “Black sky” (preziosa l’armonica a conferire un ché di distante e polveroso) mi hanno ricordato his majesty Richard Butler (Psychedelic Furs, Love Spit Love), che per il sottoscritto è il più grande cantante mai esistito, ma questo è un altro discorso, pace, amen.

La chitarra disegna di quando in quando brevi assolo sbilenchi e secche frasi asciutte che posso unicamente definire rock, tra sentori di Locust Fudge e concessioni più datate agli ultimi 80’s o sortite che lambiscono gli anni zero (zona James Murphy, per citarne uno), ricreando una magia che mai pare essersi interrotta.

Sfilano così sei ballate elettriche più intristite che nervose, dalla confortevole “World of sound” all’incalzante “Last summer ruins”, gemme di prodigiosa lucentezza in un disco il cui apice è raggiunto dai dieci minuti di “My sign on you (part 1 & 2)”, lanciata da un up-tempo quasi kraut guidato dal basso e cullata - dalla metà in poi - da una struggente malinconia, sublimata dal sax frenetico di Gianluca Varone nel fremente crescendo finale.

Sulle ultime note sospese dello strumentale “Congo” - etereo e attendista, poi scosso ed agitato - io sono esattamente sulla porta di casa: di questo disco, anche la durata è perfetta. A domani. (Manuel Maverna)