SPACE ALIENS FROM OUTER SPACE  "Nebulosity "
   (2019 )

Il quarto lavoro degli Space Aliens from Outer Space, Nebulosity, è un concentrato di psichedelia, prog rock, funk, elettronica spaziale e grandi melodie, dove la band, in una formazione leggermente rivista, diverte e si diverte.

Il viaggio verso un’altra galassia inizia con la ritmata “Asterism”, lunga composizione che mescola un andamento quasi funky a esplosioni elettroniche della migliore Laurie Anderson; i sintetizzatori forniscono elettricità pura a un brano che più si spinge lontano più sembra ritornarti addosso come un boomerang. Segue “Trajectory”, maestosa e tenebrosa, che conduce l’ascoltatore sopra una serie di montagne russe emozionanti e spaventose al tempo stesso. L’elettronica si fonde con la noise, gli echi di Brian Eno con le curvature spaziotemporali dei Kraftwerk, la specificità dei Can con i viaggi interstellari di Laurie Spiegel. Il cambiamento di ritmo e di suono nel finale non contribuisce a spiegare, ma anzi infittisce il mistero. Arriva l’intreccio di “Entaglement”, sintetizzatori e percussioni da giungla amazzonica, immersi, appunto, in ritmi tribali e rivoluzioni selvagge. Chiude la prima parte del disco “Propulsion”, qualcosa che ci riporta al periodo berlinese di Bowie, in particolare al capolavoro Low. Nel frattempo, però, allo spettatore pare di essere finito d’improvviso all’interno di un film di John Carpenter, intessuto delle sue colonne sonore folli e lucide al tempo stesso; si giunge, infine, a un qualcosa di molto vicino al prog dei Moderat.

Con “Into the Nebula”, che inaugura la seconda parte del disco, lo space prog e l’art rock, qui però in pieno stile ’70s ed ‘80s, prendono sempre più piede, divenendo parte integrante di questa conclusione di disco. Con questo pezzo si entra a tutti gli effetti in un’altra dimensione. Segue “The Outer Realms”, un altro viaggio interstellare che affonda però le sue radici non solo nel progressive “storico” ma, in parte, anche nel krautrock. “Particle Horizon” è la raffigurazione musicale di una dimensione senza profondità, un continuum spazio temporale che pian piano inizia a piegarsi e riporta l’ascoltatore verso un qualcosa di maggiormente ancorato al terreno, “a misura d’uomo”, diremmo, che si manifesta in “Starchaser”, chiusura epica e trionfale, che cita il film cult animato del 1985. L’uomo comune, nella sua quotidianità, mediocrità ma anche dignità, riemerge dalle paludi che lo avevano visto combattere, perdere, annullarsi, annichilirsi; riemerge scosso, intontito, sfiduciato, ma porta con sé dei trascorsi incredibili, rappresentati proprio da questo disco. (Samuele Conficoni)