NOMOTION  "Funeral parade of lovers"
   (2019 )

Ora vi spiego in termini spicci perché “Funeral Parade Of Lovers”, esordio lungo del quintetto friulano Nomotion, è disco della settimana, ed anche perché finirà – mi venisse un colpo – tra i miei album dell’anno, anche se siamo solo a maggio.

Secondo la fisica, il tempo fondamentalmente non esiste. Vallo a spiegare, alla fisica, che il tempo passa.

Al di là della seconda legge della termodinamica, che ho imparato sui libri ed ho rispolverato grazie ad una canzone dei Fleurs Des Maladives, lo scorrere del tempo lo misuro ascoltando vecchi dischi, o - meglio ancora, perché non si può vivere di soli ricordi – godendo di dischi recenti che sembrano piovuti qui da decenni fa.

Sono quindi immensamente grato e riconoscente ai Nomotion - gente che ha fatto una bella gavetta a fianco di nomi di un certo peso - per questi quaranta minuti privi di cerebralità artefatta o cervellotici livelli di meta-analisi, una botta di undici tracce registrate in analogico in presa diretta con tutta l’immediatezza ed i bei difetti del suono live che le caratterizza.

Bene, magari potremmo discettare sul fatto che la presa diretta non nasconda né corregga le piccole imperfezioni o che non amalgami il suono come farebbe un lavoro di produzione più levigato e asettico, o perfino su qualche imprecisione nell’uso dell’inglese: ma del resto m’importa ‘na sega, e le canzoni di “Funeral Parade Of Lovers” sono talmente belle che pazienza se la pronuncia non è sempre oxfordiana e se il missaggio baratta (volutamente, azzardo) la coesione con l’urgenza. Il risultato manda fuori di testa, meglio se hai passato i quaranta e possiedi una disposizione d’animo incline alla melanconia spinta.

Alla fin fine, hai davanti qualcosa fra Tindersticks e 16 Horsepower, undici pezzi in minore a tinte scure: loro lo autodefiniscono southern-gothic-rock, io direi semplicemente che sono delle murder ballads mid-tempo che ti sciolgono il cuore. Una meraviglia crogiolarsi in cotanto spleen, con quella voce baritonale che mi ha pure ricordato Andrew Eldritch (“Killing fields”, “Black aura” che sembra una outtake da “First and last and always”), tra echi di Clash (“Adenosine”), Bauhaus (“The long morrow”) e pure Violent Femmes (“Bring me down”).

Ci sono i chitarroni e l’hammond a ricamare un alt-country triste, languido, pigro a tratti, sublimato nella cadenza slack di “The edge of abyss” o nell’accelerazione di “Rillington place” che sa di far-west, di Johnny Cash e di strade polverose. C’è in definitiva una sequenza ininterrotta di ballate incupite in cui a prevalere è una deliziosa mestizia di fondo che dilaga tra ganci e ritornelli, come quello della title-track in apertura o come il passo veramente sudista della conclusiva “Our black sun”. E’ tutto ciò che serve, a volte, per accettare il trascorrere del tempo.

Ecco: al diavolo il tempo, viva il tempo. (Manuel Maverna)