MoE + METTE RASMUSSEN  "Tolerancia picante"
   (2019 )

Guro Skumsnes MoE è una musicista norvegese diplomata in contrabbasso. Nelle performance in ambito accademico, si può osservare la sua ricerca volta al rumore, strofinando le corde del suo ingombrante strumento con due archetti, o con uno spago, per ottenere fischi e strascichi di cattiveria e disagio, come unghie grattate alla lavagna. Nel suo progetto “MoE”, lo stesso fine di far sanguinare le orecchie è amplificato a livelli sadomasochistici, imbracciando il basso elettrico ed emettendo strazianti strilli. Basso, batteria, chitarra. Il trio esegue un noise rock, tendente allo sludge, usando l’improvvisazione jazz. In parole povere: baccano all’apparenza disorganizzato. In questo contesto si presenta Mette Rasmussen, una sassofonista danese attiva nell’ambiente free jazz, a volte anche in perfomance da solista, dove indugia non solo su note impazzite, ma anche sui rumori emessi dai bottoni suonati a vuoto, nonché sul prolungamento di singole note, dilatate fino a separarne gli armonici. L’unione di fuoco dà vita ad un lavoro malsano, intitolato “Tolerancia Picante” (appena uscito per Conradsound Records), dove il muro di chitarra e basso, e la batteria quasi sempre martellante e/o trillante, non ritmica, creano l’ambiente ostile nel quale la sassofonista si deve incamminare. Spesso e volentieri le urla di Guro sfidano gli acuti di Mette. Più che un incontro, o un dialogo, si tratta di uno scontro, una reciproca sfida a deteriorarsi vicendevolmente, una spirale di odio e violenza tradotta in suoni. Un brano emblematico è “City boy”, dove il batterista prende il groove e lo sbriciola con poliritmie antagoniste, mentre MoE sbraita invettive, alle quali Mette risponde ringhiando nel sax. La chitarra alterna fasi di frammentarietà isterica, a lunghe zone di una solidità d’acciaio, come in “Introduction”. “Strangle, strangle, strangle…” conferma l’intento malvagio: alla violenza verbale gridata rispondono contemporaneamente il sax in acuti lancinanti, e la chitarra con un lamento. Il batterista continua a non concedere un ritmo stabile, in “This is who we are” perlomeno il basso distorto sembra all’inizio promettere uno shuffle blues, che poi non si realizza tornando nel free jazz più selvaggio. Tre pezzi vengono titolati come una suite: “I carry the mother (suite part 1)”, “Violently passive (suite part 2)”, “Story of a “NO!” (suite part 3)”. La “narrazione” della suite è affidata in astratto alle urla di Guro, che passa dalla parvenza di un macabro rituale, al terrore puro, al ripetere disperatamente “Why”. Il suono di chitarra sembra dilatarsi come una gomma, mentre un suono tra le corde viene effettato fino a sembrare un elicottero. In tutto questo Mette Rasmussen non si è persa, ma dopo una breve assenza torna a commentare con il suo strumento a fiato. Se avete il piacere di ascoltare urla inconsulte come quelle continue di “Shardrach, Meschach and Abednego” e “Ask”, e di affrontare una violenta rissa sonora, prendete le precauzioni psicologiche, e siate coraggiosi come Mette Rasmussen lo è stata, affrontando da sola la guerriera minacciosa e i suoi scagnozzi. (Gilberto Ongaro)