MARGHERITA ZANIN  "Di stanza in stanza"
   (2019 )

Il nuovo disco di Margherita Zanin, prodotto da Lele Battista, si intitola “Di stanza in stanza”, e presenta 11 nuove canzoni, più una cover di chiusura, “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli. Partendo da questa rielaborazione del celebre brano in chiave chillout, veniamo a conoscenza delle coordinate scelte per l’LP, dirette verso sonorità elettroniche e trip hop. Ogni canzone è presentata come una stanza, la cui porta, cioè l’introduzione, è un breve incipit pronunciato da nomi di punta della scena alternativa italiana (Morgan, Appino, Motta, Guenzi, Capovilla, Godano…). A lungo il gioco suona un po’ ripetitivo, ma il fondo sonoro scelto per questi inizi, di per sé crea abbastanza suspense, come le musiche nei quiz televisivi. Leggendo i nomi dei personaggi illustri, ho voluto indovinare subito dove fosse il caro Morgan, e dal titolo del brano l’ho sgamato subito: “Psicofermo”. Penultimo pezzo del disco, è qui che il trip hop si fa riconoscere nel suo ritmo, su un fondo sonoro dream pop, e dove la cantautrice descrive un mondo dove i farmaci sono assunti fino a non distinguere la vita reale: “Psicofermo, psicocalmo (…) Xanax, Valdorm, dormo (…) con un volo leggero mi butto sui sogni sul serio”. Margherita continua a cantare con quegli appoggi vocali stile Meg, e parla di sentimenti semplici, provando a impreziosirli con panegirici e sillogismi. Come il concetto di “Invisibili”: “Se l’amore è invisibile, l’amore è possibile”. O come in “Rosa”: “Tra lune di plastica e le tue rose, calpestate dalle bombe che liquide scorrono”. Alcuni pezzi presentano una vocazione pop, come “Amaro”, col suo ripetuto refrain: “Amaro fuori, amaro dentro, cento passi ed attraverso, e attraverso”, o come il brano che vuole essere sbarazzino “Non mi diverto se penso troppo”: “Fermati adesso, hai solo tre minuti, il tempo perfetto, poi ciao ciao”. Margherita poi si cimenta nel rap in “Un amico che va via”, citando Fabri Fibra nel ritornello, sopra un arrangiamento urban che contrasta con l’aspirazione bucolica del testo: “Sono tipi interessanti, quelli che non vanno in centro, che preferiscono l'erba al cemento”. Per la dedica ad un’amica scomparsa, “Amalia” presenta una musica diversa nell’introduzione recitata: un pianoforte rapido e drammaturgico. La descrizione della donna, coricata in un giardino dapprima di rose e poi di spine, ricorda il dipinto “Ophelia” di Millais. “Ovvietà” gioca sulle situazioni scontate, come il sole che si spegne quando arriva la notte, “il solito gioco delle mele a metà”. Forse vorrebbe dire, come l’incipit ammonisce, che le ovvietà sono le cose meno ovvie (“è ovvio l’amore”), ma nel corso della canzone la cosa rimane implicita. Invece, per “La stanza del mondo”, le parole sembrano finalmente iniziare a penetrare qualcosa dell’imperscrutabile, in questo non – luogo, questa stanza “che tieni segreta com’è segreta Atlantide”. Lo spazio interno e chiuso della stanza si confonde con quello esterno ed aperto della Terra, e, cercando una metafisica, la Zanin scrive: “Sono salva solo per lo spazio tra la carta e il disegno del tuo silenzioso preoccuparti”. Un suono carino esegue l’inciso di “Casca il sogno”, canzone volutamente naif, stile ribaltato in “Fiori di carta”, dove compare in primo piano una chitarra acustica. Qui l’impegno è maggiore, nel riportare sensazioni tattili e di gusto: “Ti incontrai nel mio mare salato e ti ho fatto assaggiare la sete (…) nel giardino di casa mia fatta di pietra fredda”. Non tutte le canzoni escono col buco, perché Margherita a tratti sembra indecisa se buttarsi a capofitto in uno stile squisitamente intellettuale, o se lasciarsi attrarre dalla semplicità. “Ovvietà” è la chiave che rivela questa indecisione. Evoca tutte le banalità, per poi bollarle nel ritornello: “Che ovvietà!”. Forse la risposta sta nel continuare a sondare l’ineffabile, come ne “La stanza del mondo”, l’episodio più convincente, dove il confine tra realistico ed allegorico si possono mescolare impunemente, e già la scelta musicale “ipnotica” suggerisce che quella sia la direzione più florida. (Gilberto Ongaro)