RICHARD JAMES SIMPSON  "Deep dream"
   (2019 )

Con Richard James Simpson ci addentriamo nella scena alternative californiana. Frontman dei Teardrain, band che ha calcato le scene negli anni ’90 (e tra i cui membri spicca Jill Emery, per un periodo bassista degli Hole), nel 2017 ha iniziato un percorso solista assieme a Joey Burns dei Calexico. Il suo secondo LP, “Deep dream”, presenta numerose collaborazioni della scena, ed è un album caratterizzato da due anime distinte: una sperimentale che vira nell’industrial, con tracce a volte anche brevi ma ipnotiche, e quella punk rock. Quello che è presente in entrambe le situazioni è l’elemento noise, di disturbo sonoro, così come l’approccio spontaneo e diretto. Introdotto da “Dream 1”, 9 secondi di parole sospirate e confuse, entriamo in “ON2U”, un panorama elettronico distorto, mentre “Know” ammicca alla trip hop, con lo spirito del krautrock. I 32 secondi di “Ice on your lips” sono parole bisbigliate sotto un suono statico ma tagliente, che introduce il primo esempio di punk classico del disco: “Mary shoots ‘em first”. Si continua in tale direzione con “Free”, brano dal refrain più amichevole del solito, con cori. Con “Half brother, half cloud” si torna a sperimentare, con un loop di percussioni in 7/4 ed uno di chitarra noise. Con “I couldn’t be happier” si approda ad un lento rock funereo, dove suonano i vecchi amici Teardrain. E’ uno degli episodi più inquietanti, con la voce iper compressa, che dà l’effetto “nell’altra stanza”. La band è presente anche in “Job”, dove la voce finalmente si sente chiara e in tutta la sua ruvidità, mentre i riff sembrano avvicinarsi allo stoner. Un po’ di deserto si assapora anche col tremolo della chitarra, e le corde dello strumento sono talmente tirate che talvolta paiono scordarsi leggermente, salendo di tono, con una forza espressiva non indifferente. “My psichedelic mother”, come preannuncia il titolo, è una divagazione psichedelica, tra applausi non giustificati (come quelli assurdi per i “Rabbits” di David Lynch), e un clima asfittico. “The giver” prosegue l’alterazione dei sensi, con una voce retrò maschile parlante, che sembra uscire dalla radio, che dà messaggi strani (“Your child need rest”), su base hip hop. “Pieces of you” è in pratica una ninna nanna intonata con voce distorta, sopra un vento disorientante. La chitarra si fa davvero lisergica in certi punti di “Sugar Blue Inn”, altro brano rock molto oscuro. Lo sfondo lugubre di “Primrose Bob” anticipa una drum minacciosa, e il noise che aumenta la sua presenza disturbante. Un messaggio arriva dal minuto e mezzo di “The walls have ears”, che sembra un laconico indizio per capire che succede: “The mind is the key, the mind is the most”. Dopo aver sentito che la chiave è il cervello, arriva un brano chiamato “Humans (Like I versus Like Me)”, con voci radiofoniche su fondo noise ipnotico. Infine l’album si chiude col punk rock di “Cell”. Tutto questo lavoro è una sfida per l’ascoltatore dei nostri tempi, ingabbiato in una deumanizzazione forzata, voluta dalla politica. Siamo ancora capaci di farci sentire, e di far sentire la nostra umanità, fatta di carne, ossa ed urla? (Gilberto Ongaro)