BON IVER  "i,i"
   (2019 )

Il nuovo album dei Bon Iver, i,i, non è una rivoluzione – e non doveva esserlo – ma un completamento delle idee e della poetica di tutti gli album precedenti del gruppo, soprattutto del terzo. Justin Vernon e il suo stile di scrittura non sbagliano un colpo e gli arrangiamenti, come sempre, danno alle canzoni eternità e vigore.

Annunciato come quarta e ultima ideale stagione di un ciclo di album, i,i è mastodontico e caratterialmente forte, probabilmente meno coeso dei due dischi precedenti ma quasi altrettanto potente nelle canzoni che ha dentro. “Hey Ma” e “Faith” sono destinate a divenire un momento di snodo degli show della band, le neo-folk “We” e “Marion” ricordano a tutti da dove lo stile di Vernon proviene, e “RABi” e “U (Man Like)” sono una sintesi perfetta di Bon Iver (2011) e 22, A Million (2016). A fornire un ulteriore indizio in questa direzione sono la mistica “Naeem”, dolce e poetica, e la eterea “Holyfields”.

Le batterie e i campionamenti vocali che avevano caratterizzato proprio 22, A Million subiscono una trasformazione che va prevalentemente in due direzioni. Da un lato vi sono una schiettezza sonora inusuale e inaspettata e un minor numero di strati e sovrapposizioni di linee melodiche rispetto a ciò cui Vernon ci ha abituati, pur con il mantenimento di quella patina di mistero e di nebbia che caratterizza tutta la produzione dei Bon Iver. Dall’altro lato vi è l’integrazione di cori e voci che non sono solo campionamenti ma anche featuring di altri artisti, pratica che all’inverso (Kanye West che nel 2010 utilizza Vernon per un sample e poi, nel 2013, lo contatta per una collaborazione ex novo su Yeezus) aveva funzionato meravigliosamente e che qui, rivisitata e risemantizzata nel mondo electro-folk e non hip-hop, assume caratteristiche inedite. Tra i tanti contributi spiccano quelli di Moses Sumney e Bruce Hornsby nel limpido gospel piano-centred “U (Man Like)”.

Le differenti diramazioni che ogni brano persegue finiscono per ricollegare la straniante narrazione allo scarno folk dell’esordio (vedi “Salem”) o al capolavoro massimalista del 2011 (“Naeem”, “Faith”), senza rinunciare alle funamboliche sperimentazioni del terzo disco, evidenti in “iMi” e “Sh’Diah”, le cui complessità e stratificazioni sono chiare già solo nei titoli. “Sh’Diah”, composta all’indomani dell’elezione a presidente di Trump nel 2016, è l’acronimo per ‘shittiest day in America’s history’, come ha dichiarato Vernon stesso in una recentissima intervista per Pitchfork, e si chiude con un meraviglioso sassofono, lo strumento che aveva rappresentato una delle cifre stilistiche più notevoli dell’album precedente. Di tanto in tanto è il lato elettronico a prendere il sopravvento e a tessere un universo distante anni luce da quello nel quale noi ci muoviamo. I Bon Iver ci hanno dimostrato che la figura del cantautore può evolvere: è sia folk sia elettronica, è sia one-man band (il Vernon degli esordi) sia “quasi-orchestra” (i Bon Iver di oggi dal 2011). Se i precedenti due album stanno a sé, meravigliosi e irripetibili (in particolare il self-titled del 2011, che resta il capolavoro assoluto del gruppo), i,i è un degno successore che tenta di rinchiudere la bellezza sotto una campana di vetro nel tentativo di preservarla e non farla fuggire. (Samuele Conficoni)