UNOAUNO  "Barafonda"
   (2019 )

Se rientrate nel novero di coloro che non restarono indifferenti al cospetto di “Cronache Carsiche”, debutto datato 2017 del trio unoauno su etichetta Ribéss, consideratevi assolti e gaudenti; se invece - rei non confessi – foste colpevoli di averli derubricati al rango di cloni o epigoni, allora come nell’adagio del dito che indica il cielo ecc. ecc. vi meritate di essere tacciati perlomeno di miopia. Se infine proprio ve li foste persi, questa è la vostra nuova occasione per rimediare, sempre grazie a Ribéss.

A loro tre, ne sono certo, non interessa affatto in quale delle categorie rientri chi. Fanno la loro cosa, dritti come un’auto senza pilota lanciata contro il muro.

Imperativo ed essenziale: lasciar perdere tutto quanto gli unoauno legittimamente vi ricordano e ripartire da “Barafonda”, guardando oltre la forma e nutrendosi di un album clamoroso. Nove pezzi, ventitre minuti. Foga post-tutto che rispetto a “Cronache Carsiche” – a tratti forse meno spontaneo di quanto avrebbe potuto essere - semplifica, scarnifica, prosciuga. Dismette orpelli e fronzoli e va alla giugulare, senza più dilungarsi o disperdere il seme.

Giangi sputa schifato il suo spoken word, Mauri percuote qualsiasi cosa, Rocco martoria il basso. Leggete bene, non è un errore: mai usato chitarre, eppure la violenza che trasuda da queste nove schegge è palpabile.

Ecco, “Barafonda” si sbarazza di tutto l’inservibile, spolpando fino a mostrare l’osso, suonando finalmente libero. Ivi compresa la sacrosanta libertà di esprimersi come meglio sa e come sente di dover fare: che poi ciò implichi adesione a modelli amati e mandati a memoria – fin troppo espliciti per nominarli - è peccato che non inficia, da declassare – questo sì – a puro e semplice vezzo.

Pronti, via: la martellata di “Autobahre” – due minuti scarsi - è il biglietto per l’inferno, un assaggio frenetico e truce che sa di Morso, o di Mimì Clementi sotto anfetamine. Stop-and-go, rasoiate math, testo amaro. Preludio al livore malaticcio de “La Pietra”, a sua volta anticamera di “Nessuno”, due minuti e poco più su un mid-tempo incorniciato da parole che sono macigni. Vuoto, nulla, tutto da perdere e nulla da guadagnare, esprimi un desiderio e non lo avrai: una vita tranquilla/una vita solitaria/e mai niente di nuovo.

Nell’ondeggiare depresso di “Costa Adriatica”, scossa da deflagrazioni e grida, e nella sorprendente melodia di “Rivoluzioni” (ospite Pieralberto Valli su un’aria à la Marlene Kuntz) Giangi canta anche, o accenna a farlo su rari brandelli di armonie sbilenche presto ingoiate dal prossimo turbine. Che si materializza nella truce “Diane”, bailamme malsano e perverso che raccoglie tutto lo sporco dal bassofondo, un Teatro Degli Orrori dal linguaggio scurrile che soffoca in rimandi e citazioni smozzicate tutta la sua sordida ferocia, fino al commiato dimesso à la Santo Niente di “Non ci siamo mossi di un passo”, sudario strappato steso sopra un piccolo mondo di squallore, contraddizioni e ben poca redenzione.

Pietà è morta, è morta la speranza. (Manuel Maverna)