GIORGIA BAZZANTI  "Non eri prevista"
   (2019 )

L’impressione, alla fine del primo ascolto, è quella di aver assistito a una partita tra il mestiere e l’ispirazione, dove il primo ha vinto con diversi punti di scarto.

Mi trovo dinanzi a un classico disco cantautorale, italiano sino al midollo, dove gli strumenti acustici la fanno da padrone. Nell’epoca della musica liquida e dell’elettronica pare quasi un lusso rustico volersi concedere una pausa tra le note di una piccola orchestra.
Si respira subito un’aria elegante, contenuta. La voce, molto pulita, raffinata, mi ricorda a tratti Arisa, in altri l’algida leziosità di Fiorella Mannoia, più cattedratica che toccante.

Lo snodo del disco sta tutto nella riga precedente. La grande cura con cui vengono scelti i suoni, le parole, questa ineccepibile confezione. Un dispiego di grande mestiere per contenere al fine un grande assente: il racconto di una storia.

“Non eri prevista” ad esempio, il brano d’esordio, non può non far pensare a quel monumento emotivo che porta il nome di “C’è tempo” (Fossati), il pianoforte che guida un arrangiamento molto delicato accompagnato da un’armonica a cui rispondono poi gli archi, la voce che trascina qualche vocale, l’incedere fluttuante.
Alla fine però la canzone scivola via senza lasciare traccia, una, due, cinque volte e mi ritrovo sempre a chiedermi quand’è che la canzone si è fermata, dove, se c’era qualcosa che volesse dirmi davvero o se mi è solo sembrato di sentire qualcosa.
La sensazione permane per l’intero lavoro.
Nella successiva “Famme giocà” vengono introdotti ulteriori elementi relativi al piatto del significante, una certa mediterraneità, un violino dai tratti irlandesi.
E’ un disco in cui l’utilizzo di strumenti ritmici non è quasi mai centrale, più che altro supportivo.
C’è poi questa impressione un po’ stantia di “canzone all’italiana vecchio stampo” che ho spesso quando mi imbatto in certi arrangiamenti sanremesi (aggettivazione che per l’appunto è arrivata quasi a connotare un genere) o come in “Ninnà” dove emergono forti degli aspetti folklorici che mi appaiono più anacronistici e pedanti che interessanti.

E’ un disco che non mi sorprende, senza un sussulto, dove il già sentito è più ingombrante del palese spessore dietro alle dita dei musicisti.
L’uso della voce poi finisce con l’appiattire ulteriormente le canzoni, teso più a un esercizio di stile che alla ricerca di una bella melodia, una voce quasi sempre in punta di piedi, sussurrata, enfatica, parlata.
Devo aspettare “Se questo non è amore” per poter apprezzare un registro più ampio e divertente, quanto meno dal punto di vista tecnico.
Ci pensa poi il testo (del compianto Gianmaria Testa) a darmi una chiave di lettura conclusiva di questa antologia: “ed inseguire una storia che forse in fondo è solamente mia / qui dentro a questa stanza / che non passa il tempo mai / mi sento addosso la tua assenza / anche quando ci sei”. Il soggetto anziché l’oggetto d’amore, me lo immagino essere “il racconto” stesso.
Il racconto c’è.
Senza però una storia, il rischio di cadere nelle sabbie mobili della retorica è altissimo.

Arrivano alcune seducenti suggestioni, proprio sul filo di lana, con “Lucida”, una moderna e notturna danza del fuoco che potrebbe tranquillamente risuonare nella mente di Kevin Costner mentre viene osservato da lontano, non senza una dose d’incanto, da “Due calzini”.
Un brano che magari riascolterò con piacere in questo inverno, all’aperto, la sera, con una coperta e un bicchiere di vino, perso tra quello che è stato e quello che poteva essere.

Giorgia Bazzanti sceglie di chiudere il disco con una cover, “Viaggiatori d’occidente” di Fossati, e sceglie di farlo proprio con la stessa band che la suonò la prima volta. Il tutto scorre via senza invenzioni o interpretazioni di sorta, non aggiungendo nulla all’originale.

Un disco senza canzoni memorabili e intuizioni, avaro di emozioni, ben suonato, arrangiato con gusto. (Alessio Montagna)