LITHIO  "Shibuya"
   (2019 )

“Shibuya” è un sollievo contro la solitudine esistenziale, contro la costernazione. E’ il racconto di chi è morto, rinato e poi morto ancora… ed ha deciso di trasformare la morte in musica. Convertendo le urla in parole. E’ un’occasione liberatoria per chi necessita di cantare quello che fa male. Per dar corso alla Musica, che ci salva tutti. “Allora fai una cosa… Prendi la mia mano e vieni a ballare con me. Non saremo più soli”. E’ così che recita la nota stampa per la presentazione dell’album. E’ chiaro il concetto alla base di questo “Shibuya” dei Lithio, band fiorentina con tre album all’attivo tra il 2010 ed il 2016. E’ una glassa sonora che avvolge l’ascoltatore e lo porta in un universo di suoni distorti e di drumming serrati. Notevole il lavoro di mixing e di mastering alla base, conferiscono molto, anzi, moltissimo alla qualità generale delle registrazioni. Soprattutto ai suoni distorti in simil-quadrifonico. E’ un suono pesante ma non dai contesti cupi, al di là delle liriche. Emula in maniera satisfattiva un certo tipo di rock/nu metal americano. Lo trincia e ne trae un condensato ove si riescono a distinguere i Deftones di “White Pony” o “Around the Fur” (senza il growl di Chino Moreno), i primi Staind, i Lacuna Coil e gli Evanescence (senza tastiere e senza le vocalità di Cristina Scabbia o le nenie di Amy Lee), fino a sfiorare alcuni passaggi meno trasognanti e più diretti dei Dredg di “Catch without arms”. A sentire bene ognuno può identificarci anche altro in questo bel condensato sonoro, poiché la matrice dei Lithio è chiaramente leggibile. Le parti cantate sembrano poi distaccarsi dal contesto. Qualcuno potrebbe trovare un cantato che vive bene anche su un tappeto sonoro unplugged o comunque pop, trattandosi sostanzialmente di una voce baritonale, pulita e melodica. Forse sono solo le conseguenze della scelta (coraggiosa) di cantare in italiano: nella lingua della poesia, del melodramma, della musica leggera ma mai del rock. Forse questa è anche rappresentazione della cantata solitudine esistenziale (voce) con la costante lotta contro l’emarginazione (musica). “Fino a ieri” e “Icaro”, coi potenti attacchi e con le robuste consistenze, ben rappresentano l’intera produzione, anche con quel misto melodico/pesante somministrato a giuste dosi. Poi “L’equilibrista”, in bilico tra una pace apparente ed una esplosione sonora lenta, “Fino a ieri”, con il suo bel tema principale di chitarra, e “La lunga strada”, cantata con i toni che fanno pendant nei contesti radiofonici. Diversamente da “Noi siamo tutti”, con il caratteristico ritornello tipico da coro da palasport. Tutti gli altri brani, compreso quello che porta il nome dell’album, hanno delle caratteristiche abbastanza omogenee: melodia e attacco potente. Al di là del contenuto dei testi, che sostanzialmente raccontano colui che tende una mano a chi si trova nella disperazione, colui che il buio lo ha superato ed ora vuole aiutare altri a sconfiggerlo con l’espediente musicale. Complessivamente sono 50 minuti di esplosione sonora tutta da assimilare ed apprezzare, per il coraggio, per la tenacia, per la volontà di reagire tramite l’arma della musica. Anche per la giusta intenzione di proporre un genere musicale diretto e potente, in un panorama musicale italiano assopito e distratto da fatue giocondità musicali. (Vito Pagliarulo)