MARIA MAZZOTTA  "Amoreamaro"
   (2020 )

Vogliatemi perdonare, ma non sono all’altezza di dischi come questo e di artisti come la salentina Maria Mazzotta.

Non è ruffianeria, piaggeria e nemmeno una captatio benevolentiae travestita da finta umiltà, così per stabilire un clima empatico e mettere le mani avanti. E’ che proprio la materia è troppo alta, come lo sono talvolta Basile o Capossela, per intenderci.

E dentro a questo album di Maria Mazzotta - “Amoreamaro”, che esce per Agualoca, ed è solo l’ultimo capitolo in ordine di tempo all’interno di un percorso di tale ricchezza che richiederebbe trattazione a parte - albergano una ricerca ed una profondità che travalicano gli angusti confini della forma-canzone racchiusa in qualche minuto di musica. Che è – beninteso – musica da solluchero, vergata nella pietra e scavata nel tempo. Ancestrale, popolare, parte per il tutto e simbolo, testimonianza, retaggio, ricordo collettivo e individuale. Musica per non dimenticare, intrisa di una tensione da fare a fette come la nebbia in Valpadana.

Dieci brani che impastano italiano e dialetti vari, talmente vissuti, densi, intensi e sovraccarichi da superare l’ostacolo della lingua. Capisci anche senza capire, con gioia, lasciandoti portare dalla corrente. Otto rielaborazioni di brani tradizionali e due inediti, su ciascuno dei quali aleggia una spiritualità trasversale che va ben oltre il testo o l’esecuzione: è un giardino della memoria, un reliquiario di preziosa, pagana sacralità.

Maria Mazzotta è un nume tutelare della musica etnica nostrana, una voce che da lungo tempo sa vestirsi dell’abito che vuole: aspra, incattivita, addolcita o suadente. Insinuante, esitante, estatica o sofferta.

Può essere lieve e sarcastica come nel doppio stornello di “Vorrei volare/Ballata della presa di coscienza” che apre l’album o indulgere ad una tormentatata disperazione come nel tradizionale abruzzese “Scura maje” che dispiega in tutta la sua più profonda contrizione uno straziante lamento vedovile.

Sa farsi rabbiosa con il solo supporto di una fisarmonica in “Rosa canta e cunta”, un classico – in parte autobiografico - di Rosa Balistreri, frizzante nell’inedita “Nun me lassare”, carezzevole e morbida nella ninna nanna spaccacuore di “Tore tore tore”, o perfino insostenibile nella celeberrima mattanza de “Lu pisci spada” del Mimmo nazionale.

Tra l’omaggio alla canzone sarda di “No potho reposare” e quello a Gabriella Ferri in una “Tu nun me piaci più”, che sacrifica la vena jazzata per una rilettura più composta e bucolica in punta di chitarra, svettano i sei minuti indemoniati dell’inedita title-track, una pizzica incalzante incessantemente scossa da una violenza primitiva e viscerale, passionale e cruda, un sabba di rara veemenza dalle radici oscure e dall’anima buia.

Questo disco è troppo per me. Fatico a parlarne: posso solo ascoltarlo, con la riverenza che merita. (Manuel Maverna)