MATT ELLIOTT  "Farewell to all we know"
   (2020 )

Artista addirittura totemico per gli estimatori di una musica afflitta, intima ed intensa fino ad eccelsi livelli di contrizione, Matt Elliott ha attraversato in punta di piedi l’ultimo quarto di secolo, prima con il progetto Third Eye Foundation, quindi abbracciando una carriera solista costellata di piccoli gioielli, ivi compreso “Farewell to all we know“, pubblicato come di consueto per la deliziosa etichetta francese Ici D’Ailleurs e ultimo di undici lavori in proprio dal 2003 ad oggi.

Scarno, stralunato, desolato e dimesso a partire dall’artwork di copertina, l’album raccoglie dieci composizioni segnate da un uso parco e misurato degli strumenti (chitarra classica, basso, violoncello, pianoforte), ensemble mirabilmente assecondato dal baritono catacombale di Matt e dal massiccio ricorso a tonalità minori, perfette per veicolare testi figli di un’indole umbratile e di una insopprimibile melanconia di fondo.

Incessantemente sospeso tra il retaggio di Leonard Cohen – inevitabile riferimento nel drammatico languore in bianco e nero di “The day after that” come nell’abisso di mestizia che definisce “Hating the player, hating the game”, screziata dal violoncello sommesso e straziante di Gaspar Claus – ed una fortissima eco del Mark Kozelek periodo Sun Kil Moon tra “April” e “Among the leaves” (specie nelle frequenti parti affidate agli arabeschi della sei corde: emblematica “Aboulia”), “Farewell to all we know“ dispensa a piene mani un folk-noir spezzacuore, quello che fa fremere i sei minuti della title-track o di una “Bye now” dall’incedere soavemente jazzy, aria raffinata che si snoda sinuosa sulle note di pianoforte à la Bill Evans di un ispirato, prezioso David Chalmin.

Funereo a tratti nella insistita ricerca di una oscura, profondà espressività, Matt permette tuttavia al suo sentimentalismo compunto di lasciar affiorare in superficie più di uno spiraglio di luce, quasi una pulsante vitalità (la frenetica “Can’t find undo”, l’incalzante strumentale “Guidance is internal”) celata sotto il sudario di una musica agonizzante e fosca. Certo, è un fioco chiarore a sprazzi, un lucore diafano che suggerisce salvezza senza prometterla mai.

The pain if there’s a next life/and the pain if there is none.

Il brano di chiusura – poche parole ripetute su un lento giro di chitarra bucolico e rassicurante - lo intitola “The worst is over”: non so perchè, ma stento a credergli. (Manuel Maverna)