DOCTOR DELTA  "Slow dog blues"
   (2020 )

Luci e ombre in questo esordio che propone come manifesto programmatico un interrogativo: quali possono essere le strade da percorrere per fare della musica blues nel XXI secolo?

Lasciando percorrere al duo Alice Miali/Giorgio Casadei i ripidi sentieri dei massimi sistemi, indosso i panni del cercatore d’oro e mi addentro nel loro Klondike.

Noto immediatamente episodi a-la Last Town Chorus come ''Daisies Are Red'' (non ho mai capito il perché delle maiuscole ovunque nei titoli) e ''Slow Dog Blues in the Desert'', a mio avviso le vere pepite della raccolta.

Mi vedo dover sottolineare che alla fine sarà negli episodi più intimi e ipnotici, come i due appena citati o ''Slow Dog Blues in California'', che i nostri riusciranno a trovare la loro dimensione più efficace, connettendo l’ascoltatore con la dimensione onirica.

Dimensione che riusciranno peraltro poi a disfare di continuo, come l’attraversamento della fragile tela di un ragno boschivo da parte di un distratto cacciatore, scegliendo di continuare ad alternare il ritmo nella singhiozzante track list (provate a mettere in fila la citata “… in California” con la successiva “The Lost Art…” e capirete di che parlo).

C’è un sacco di carne al fuoco in questo “Slow Dog Blues”.

In ''Hypnagocic Slow Dog Blues'' vengono alla mente certe tensioni sperimentali jazz, e pure le briglie sciolte riscontrabili ad esempio in qualche canzone di Mark Olson.

Sono infastidito, invece, da brani come ''Fast Coyote Blues'', fatico davvero ad arrivare a 5:27, mi sovviene la presa in giro insita nella famosa fiaba “I vestiti nuovi dell’imperatore”.

Non so perché, ma mi ritrovo spontaneamente a pensare di essere in difetto nell’esprimere una critica, quasi come se qualcuno mi stesse dicendo che “non capisco l’arte che c’è dietro”. Mi succede ogni volta che provo a darle un’altra chance.

Fortunatamente esiste il tasto skip e non ci penso più.

La voce, femminile, molto pulita ed educata, assume credibilità nei contesti più country e dreamy, che oltre agli episodi maggiormente introversi già citati arriva a tingere con le sue inflessioni nashvilliane il brano ''Paolo & Jesse'', al di là poi di certe folli incursioni strumentali e vocali, maschili, che talvolta arrivano a guastare l’equilibrio di questo e altri brani.

Alla lunga, la sensazione che ho ascoltando il disco è di un viaggio su una nave senza timoniere, un lavoro piuttosto frammentato ed eclettico, a tratti disturbante, a tratti piacevole.

Nel tentativo di infilare all’interno della pentola quanti più ingredienti possibili, ne esce un “mappazzone”, per citare Barbieri, invogliando al riascolto di alcune tracce, tralasciandone volentieri altre.

La produzione soffre un pochino, risultando in certe circostanze sin troppo asciutta, scarnificata.

Sulla lunga distanza l’esito appare sciapo, viste anche le soluzioni armonico/melodiche che per genere tendono a suonare ripetitive, un problema che poteva essere schivato in sede di arrangiamento e che invece si palesa fedele all’idea del duo con concessioni a delle sovraincisioni che tra cori, chitarre e una spruzzatina di percussioni qua e là, provano a rendere meno monotono lo scenario nell’attesa della diligenza.

Arriva poi la seconda parte, le covers.

Il progetto, infatti, si divide tra la proposta di brani inediti e il ripescaggio in seconda battuta di vecchie glorie del passato a firma Patton, Leadbelly e tutta la cricca colpevole di aver venduto - come ben sappiamo - l’anima al diavolo.

''Mama Don’t Allow'', ''Ba-Lue Bolivar'', ''Elder Greene blues'', ''Mistreatin’ Mama Blues'', ''Minglewood blues'', ''Rolled and tumbled'', ''Mardì Gras in New Orleans'' sono però canoniche, talora noiose, assai meno interessanti della prima tranche dove, quantomeno, l’estrosità del combo permetteva di ascoltare qualcosa di realmente originale.

Merita una menzione ''Jumpin’ Judy''… ipnotica. Peccato per la voce maschile che, come in altre occasioni, pare volerla buttare in caciara anziché aggiungere qualcosa di realmente intrigante all’economia del pezzo.

Credo che Alice e Giorgio si siano divertiti parecchio durante le registrazioni di ''Slow Dog Blues'', alla stregua di ragazzini lasciati soli a divertirsi con i pastelli colorati fino allo sfinimento, senza un precettore che li aiutasse a canalizzarne il talento, limando, affinando, direzionandoli magari a scrivere una storia essenziale, alla stregua della strumentazione, con un inizio e una fine.

Parlo ovviamente di un produttore artistico, una figura che non sempre viene considerata nelle autoproduzioni (esecutive).

Lo dico in altri termini: personalmente avrei preferito meno materiale e una selezione più attenta e curata, al fine di risolvere in modo più omogeneo.

Resta quel sentore che sfiora l’inconsistenza, quella vocina che si fa spazio tra le pieghe dei pensieri, ciclica e sempre più insistente, desiderio inespresso ma sensibile: troppi novelli Pollock, pochi, pochissimi Rembrandt.

A fare sempre i bacchettoni però si potrebbe perder di vista le cose buone, correndo dietro a quello che non c’è come se fosse uno sport, e qui, come già espresso prima, di carne al fuoco tutto sommato ce n’è.

C’è ad esempio un progetto curioso, che non si prende troppo sul serio, tecnicamente preparato per affrontare la grammatica della musica a stelle e strisce, c’è anche l’amore per l’arte, la voglia di sperimentare e il potenziale sufficiente per arrivare a emozionare e divertire anche l’ascoltatore e non soltanto chi c’è dietro lo strumento.

Se fossi Vasco, parlando del progetto sarei certamente indulgente sbottando col celeberrimo verso “è ancora piccolo ma… crescerà”, invece oltre a non essere il profeta del rock anni ’80 non sono manco Cecco Angiolieri, e dovrò limitarmi a rilevare che quest’antologia contiene un pugno di canzoni ispirate, mostrando d’altro canto un duo decisamente in cerca di ispirazione.

Ho sentito dire in giro che chi cerca, trova. A volte. (Alessio Montagna)