VIGO  "Cantautorato I"
   (2020 )

Tema: essere cantautore oggi.

Che poi bisogna vedere cosa si intenda esattamente per cantautore. Non ci sono più i cantautori di una volta, eccetera. Cioè, per capirci: Niccolò Contessa non lo considero un cantautore, Giuseppe “Houdini” Righini neppure.

Per me un cantautore deve innanzitutto raccontare storie ed usare tante parole. Più parole usa, più è un cantautore. Se le parole sono chiare – non sibilline, criptiche, cervellotiche – meglio ancora.

Ma i cantautori così - quelli che usavano tante parole - andavano di moda un po’ di tempo fa, mentre oggi si va al sodo, che la gente sta sui social e non ha molto tempo – ed ancora meno voglia – di sorbirsi pezzi da sei minuti e mezzo zeppi di sproloqui, proclami, analisi, concetti, finezze lessicali, arguti calembour e quant’altro. Che poi il rischio se vuoi essere un cantautore nel 2020 è quello di scadere fin troppo nella pedissequa riproposizione di modelli e stereotipi già mandati a memoria da generazioni prima di te e in fondo venuti a noia anche ai nostalgici dei bei tempi che furono.

Ecco: se vuoi essere un cantautore oggi devi fare qualcosa che attiri l’attenzione, che ti distingua dai mostri sacri, altrimenti saremmo ancora fermi a Guccini e De Andrè, che tanto vale ascoltare Guccini e De Andrè, Paolo Conte e Capossela, visto che così non ne fanno più.

Però. Però qualcuno ha idee – meno male - e riesce ad interpretare un ruolo antico in guisa almeno interessante, se non proprio nuovo. E allora puoi vantare una scrittura dorata come Sergio Pennavaria o avere il brio luccicante di Roberta Giallo, la sfacciataggine dei vent’anni che rende così bella e trasparente Giulia Mei o la bruciante ferocia di Emiliano Merlin, l’umorismo sardonico di Alessio Alessandra o la faccia tosta di Nanco, la luna di traverso di Giorgia D’Eraclea o l’amara disillusione di Marco Degli Esposti, la cruda follia di Mario Alessandro Camellini o l’indole visionaria di Manuel Bongiorni. O l’essere altrove di Flavio Giurato.

O la tenue, sottile, provocatoria, lievemente malsana aria che pervade la scrittura obliqua del vicentino Antonio Zuccon Ghiotto, in arte Vigo, padre e padrone di “Cantautorato I”, debutto distribuito in digitale da Artist First e costato anni di gestazione e mesi di lavoro in uno studio abbandonato. Una specie di comune abitata da una decina di musicisti, ciascuno dei quali ha portato il proprio contributo ad un disco da vero cantautore. Ma storto, indisciplinato, disallineato. Con l’apporto determinante di Lorenzo Valè, Alessandro Nizzero, Francesco Tappari e Leonardo Ferrari vanno in scena sulla ribalta di uno sgangherato teatro di periferia undici episodi – sette canzoni e quattro intermezzi strumentali -, fulminei sketch che invitano a proseguire per scoprire cosa accadrà. Più che altro, cosa si dirà.

Ecco il plus, il quid, l’atout di questo ragazzo classe ‘93: gli argomenti, i temi, il modo di affrontarli. Quello che racconta e il come. Non è poco, per un cantautore. Irriverente e sopra le righe pur mantenendosi entro i confini di una musicalità garbata e misurata, declinata in forme accattivanti (le percussioni mediorientali de “Il dolce Alì”, caravanserraglio chiassoso e frenetico tra Mannarino e Carosone), Vigo infila alcune perle che brillano per una narrazione sghemba e sbilenca, tutta di traverso, mai confortante.

Una galleria di personaggi grotteschi, ognuno ritratto mettendone a fuoco gioie e dolori (poche le gioie): dalla “Signora Barzotti” (“Viene sempre in osteria/insieme a un fusto, un belloccio e il Tenerè/suo marito c’ha un lavoro dentro al porto/e quando è notte col maestrale/vede sirene dentro al mare”) a “Nonna Ida”, cinque figli e una vita come l’Odissea raccontata nei quattro minuti di uno stornello svogliato à la Stefano Rosso, passando per l’aria svenevole e svagata di “Hotel Marina”, a suo modo geniale e snervante nella reiterata ripetizione del chorus ciondolante e malaticcio (“Hotel Marina/un po’ di eroina/così non penso umanità nel cesso/triste, felice, caparbio e poi/una puttana per favore/potrei anche salvarla”).

Intuizioni brillanti, compresa la boutade di iniziare e finire il disco con due morti. Due figli morti, addirittura. Alla dipartita della prima (“Hello”, il biglietto da visita) assiste la madre, che mentre la figlia giace distesa a terra chiede al dottore quante zollette vuole nel caffè; al trapasso del secondo (“Giovanni”, la porta di uscita) non assiste il padre, al quale un altro dottore racconterà forse una bugia bianca.

Storie così, stese con nonchalance e offerte non senza una compassata carineria in uno stile che mi ha ricordato a tratti il tagliente cinismo di due piccoli giganti come Alessandro Fiori e Edda, show di arte varia che non cessa di sorprendere nè di coinvolgere.

Trucchi da mago. O da cantautore. (Manuel Maverna)