I DISCONOSCIUTI FIGLI DI  "Frank, i sognatori e altre storie"
   (2020 )

Esordisce una band bolognese in odor di cantautorato: I Disconosciuti Figli Di. L’album con cui si fanno conoscere all’Italia si chiama “Frank, i sognatori e altre storie”. I pregiati arrangiamenti sono acustici ed intimi: chitarra acustica, viola e soprattutto spicca il pianoforte, per tocco ed espressività. Come nel pezzo d’apertura “Vecchio Frank”, scegliendo coordinate armoniche sognanti per accompagnare parole che cercano d’essere nostalgiche: “E amavi quell’età che pedalava dentro te e dentro me”. Uno swing di dita schioccate ed organo avvia “Come scivola la notte dalle dita”, dove l’arco si prende ampio spazio di improvvisazione alla fine, sopra la ritmica di chitarra. Su “Piazza della pioggia” il pianoforte si fa piovoso, nell’introduzione. Il testo poi crea un tipico contesto caposselliano (un po’ stereotipato), tra un bar di città, e una donna che balla il suo “fascino gitano” sopra un tavolo. Più avanti nella tracklist, la canzone ritorna più breve in versione chitarra voce. I tasti bianchi e neri accompagnano delicatamente “Il pane duro”, dal testo più riuscito, e che sembra essere il fulcro emozionale dell’album: “Hai visto come il mondo, da quando abbiamo smesso di sognare, ha smesso di ruotare?”. Probabilmente i Disconosciuti sono consapevoli della preziosità del loro pianista, tant’è che questo brano torna a chiudere l’album in versione strumentale. “Piove a Parigi” è un altro shuffle di chitarra, dedica agrodolce alla capitale francese, più quella immaginata che quella reale. Per fortuna, la costruzione abbastanza scontata delle strofe, viene rotta a sorpresa: “Se questa è Parigi, andate a cagare, non ci voglio stare, non ci voglio…”. “Un marinaio che non sa nuotare” si veste della retorica dell’uomo vissuto, ma cela una dichiarazione d’intenti: “Mia cara, io sono fedele, alla bellezza tanto fedele, e se qualcuno la dovesse smarrire, gliela riporto, per me è un dovere”. Chiudiamo col penultimo pezzo, “Non ho tempo per i monologhi”, che in realtà è proprio un monologo, un pensiero netto e pronunciato con sicumera, accompagnato da un pianoforte jazz. Alcuni estratti dal monologo: “La libertà non rende schiavi, ma noi siamo schiavi del concetto di libertà. (…) La nobiltà, la signorilità l'ho trovata nelle persone povere,il dolore amplifica l'ascolto. (…) La Terra, la Terra è l'unica ribelle, è essa che va dove vuole, non sei tu il ribelle. E poi la leggerezza? Della leggerezza ne abbiamo abusato. (…) Noi stiamo ambendo ad essere solo una sbronza della storia. Tutti hanno bisogno di eleggere un cattivo, per potersi sentire migliori e con la faccia pulita. (…) Il tatto è il metro della civiltà. La sbruffonaggine non copre la mancanza di contenuti, genera solo capi per chi non sa decidere”. Ci sono spunti e idee molto interessanti nei testi, da migliorare sul piano formale, mentre è bella l’ambientazione musicale, che richiama la notte, e quei locali coi muri di mattoni sul proscenio. (Gilberto Ongaro)