RESILIENCE  "Tanto lo sapevo"
   (2020 )

Anche se l’indie rock dei Resilience rimanda a sonorità abbastanza riconoscibili, con riferimenti a Verdena, Radiohead (negli accordi di “Davvero”), e altri nomi scritti più avanti, la band adotta qua e là soluzioni non banali. Nell’album “Tanto lo sapevo” si nota soprattutto la particolarità dei testi mai scontati. Un certo tipo di lamento sincero, che abbiamo imparato a conoscere con i Management del Dolore Post Operatorio, viene alleggerito da una certa ironia “per contrasto”. Non è un’ironia costruita su paradossi o basata su sarcasmo acido, bensì sull’accostamento imprevisto di pensieri drammatici e oggetti privi d’importanza. Ad esempio, in “Cosa succede a fine mese”, la voce racconta: “Ho perso l'amore di mio padre, e l'abbonamento in palestra”. “5.57”, una delle canzoni più accattivanti di tutto l’album, gioca con le parole: “Quando non ci sei, non riesco a trovare parcheggio, perfetto rimane con te, ho trovato un posto, per ridere, per fottere la municipale, un posto da tenere insieme”. Strano tipo di “Solidarietà”, quello cantato nella canzone con questo titolo: “Ho vomitato anch’io, mentre lo stavi facendo tu”. “Le mani di Jemima” esce dai binari italiani per approdare in uno stile simile a quello dei Franz Ferdinand, e inizia con un simpatico sketch in cui viene interrotto il chitarrista, per una canna. Senza ascoltare tutto il disco, il brano d’apertura dell’album “Bisogno”, da solo avrebbe fatto pensare strade tematiche più contorte, sopra un riff ossessivo: “Considerato che per me sei una malattia (…) Ho pensato solo a odiare i miei limiti e a non superarli”. “Lo scienziato” parte dal racconto in prima persona di uno scienziato che non disdegna l’alchimia, per trovare “la scienza dietro al bacio”, e cita Alan Turing, processato perché “un uomo ha amato”. La voce qui fa sentire le prime urla, ma è nella titletrack che dimostra la capacità di scream, sopra un rock spassoso. E le parole anche stavolta assumono funzione parallela alle grida: “Urlo come uno scemo che tanto lo sapevo”. Emerge la stanchezza verso gli scarsi risultati dell’attivismo politico: “Metti un'altra firma per il bene comune, come una magia quando c'è il sole ma piove (…) Mi son stufato di prendermi in giro, di dire ‘il peggio è passato’, di dire ‘mi sono stufato di tutti voi’. Paura di forzar la mano o di trovarti un voto in meno”. Strillare è comunque importante per i Resilience, un filo conduttore dell’album, e diventa esplicito nel brano “Urlalo”, scritto assieme all’acuto rapper Res e sorretto da un ritmo sincopato affine a quelli dell’alternative rock. “Che cosa ci resta” invece è un pezzo solo serio, senza il lato faceto. La bravura nello scrivere i testi qui viene utilizzata per scavare nella coscienza, e la musica pure: “Non mi parli mai da quell'ospedale, il cuore di tua madre dal porto all'ecomostro (…) Non la voglio più la vostra solidarietà, ma io sarò sempre qui con te per poterti abbracciare e sopravvivere (…) e tuo padre è già là, può solo aspettare in un porto sicuro, dove non c'è mare”. La canzone che chiude l’album si chiama “Vecchi limiti”, la chitarra acustica accompagna pensieri che rimuginano. Bella scoperta i Resilience. In un’epoca dove sembrava che l’indie rock avesse ormai esaurito le proprie idee, loro sono riusciti a rinfrescarlo. E potremmo dedicare al genere musicale, le parole di “Indispensabile”: “È indispensabile che tu viva ogni tanto, che non lasci corrodere il mondo dal tempo”. (Gilberto Ongaro)