PULSE  "Adjusting the space"
   (2020 )

A gente come i Pulse non si può non volere bene.

Quartetto austriaco nato nel 2014 da un’idea di Nemesis, già leader della black metal band degli Astaroth (da non confondersi con l’omonima band nostrana), sono oggi una via di mezzo tra i Rammstein e il Reverendo, o se preferite somigliano un po’ a dei Rockets presi male e privati della vena pop.

Indifferentemente cybermetal o electro metal, così li etichetta l’appassionata cartella stampa: comunque la mettiamo, le loro sono torve mitragliate oscure appena rischiarate dall’uso massiccio dei synth. Ritmi lanciati a manetta, volumi a palla, dinamiche che privilegiano up-tempo feroci sui quali la sciamanica vocalità noir di Nemesis è libera di dispiegare il suo baritono truculento in un timbro sinistro à la Eldritch.

Introdotto dai centocinquanta secondi di un’ingannevole ouverture che rimanda ad echi progressive, “Adjusting the space” – pubblicato per la tedesca NRT Records e secondo album in carriera dopo l’esordio di “Extinction level event” datato 2015 - spalanca l’abisso con un trittico devastante: “We won’t come in peace”, “Supersonic trance sphere” e “New elastic freak” sono tredici minuti di cavalcata delle valchirie squassata da bassi rimbombanti ed almeno un paio di allegri refrain che, se non fossero materiale luciferino, potrebbero quasi passare in radio.

La differenza – ovvio - è tutta nel quasi: trame semplici, incalzanti e brutali quanto basta ad eccitare spaventando, ricordano il metal goticheggiante di Ghost, Gloom e Vlad in Tears, ma lo sovraccaricano di una componente truce e malsana. Eccessivo, sovraesposto ed intimamente malevolo, distorce voci e sommerge melodie perfino accattivanti (la title-track) sotto strati di sventagliate a doppia cassa (“Black knight”), voci distorte, rigurgiti gutturali e frenesia incalzante.

Tra bordate assassine e chorus che non ti aspetti (“Star light”), incubi in quattro quarti veloci come rasoiate sfilano sulla ribalta di uno sfavillante teatrino degli orrori, fendenti e badilate sì cattivissimi, ma pur sempre guidati e sorretti dal mirabile lavoro delle tastiere, come fossero degli Indochine indisciplinati e perversi.

In mezzo, buttano lì i sei minuti e mezzo strumentali e languidi di “Encounter” e i sette di “The passage entry”, morbide e fluide come fossero musica da film sci-fi; il passo titanico di “Points of Nibiru” con accenno di growl catacombale; la marziale cadenza spaccaossa di “Major Tom”, unico episodio in tedesco incanalato in un ritornello che sa di cabaret decadente; la chiusura techno di “Alienangel” (già presente sull’album di esordio) sfigurata dal remix di Zardonic, quasi i Fear Factory di “Remanufacture”.

Sfacciato, esagerato, pomposo fino all’inverosimile. Da riascoltare immediatamente. (Manuel Maverna)