FRANCESCO SACCO  "La voce umana"
   (2020 )

Francesco Sacco ha 28 anni, ma scrive come se ne avesse 50.

Lo so che come complimento fa schifo, ma è sincero e mi viene dal cuore.

Compio 50 anni tra nove mesi, a certa musica garbata sono sensibile, e poi non è che uno abbia sempre voglia di imbarcarsi nell’ascolto di prodotti d’avanguardia, elucubrazioni cervellotiche e ricerca (vana) di next-big-thing come se piovesse.

Il titolo dell’album è un riferimento all’omonima piéce teatrale di Jean Cocteau (“La voix humaine”, 1930), ma non farò tanto lo sgargiante fingendo di conoscerla bene e di masticare l’opera omnia del francese: basti dire che Francesco Sacco è artista multidisciplinare il cui percorso professionale travalica i ristretti confini della musica-su-disco giungendo a comprendere teatro, danza, arti visive e design.

Qui però si tratta di musica: c’è davvero bisogno di dischi come “La voce umana”, debutto autoprodotto che in una mezz'ora a dir poco sontuosa impasta i pezzi grossi di certo nostrano cantautorato âgée e i Baustelle, Ivan Graziani e Lucio Corsi, ma lo fa in un modo sbilenco e disallineato, gettando uno sguardo obliquo sul suo piccolo mondo di figure ambivalenti e controverse.

Il contrasto è tutto fra il taglio degli arrangiamenti, la grazia con cui vengono rifiniti, i suoni prescelti per riecheggiare suggestioni d’epoca da un lato (c’è perfino il theremin nella coda di “Berlino est”) ed il tenore dei testi, che tanto accomodanti non sono, dall’altro; canzoni senza un centro di gravità permanente, spesso prive di ritornelli, ganci, frizzi&lazzi o accattivanti furbate incorniciano un microcosmo personale ed intimo sempre vagamente rattristato, incupito, grigio.

Che maneggi amore o fallimenti vari, Sacco conserva intatti un amaro disincanto ed una scrittura ricca e particolareggiata, intelligente ed attraente, allettante e audace nel dipingere fondali a tinte fosche mentre ritrae personaggi ambigui con le loro vicende martoriate.

Dopo la breve intro che cita Cocteau e la title-track che ciondola pigra su un minuto e mezzo programmatico, “L’invenzione del blues” ha un abbrivio ingannevole come fosse un pezzo degli White Stripes con tanto di riff assassino, prima di infilarsi in un’ampia progressione di tastiere e nell’unico autentico chorus di tutto l’album; “Berlino est” – uno splendore di desueta mestizia - ondeggia languida su un pianoforte da chansonnier che mi fa chiudere gli occhi ed immaginare come la canterebbe Vincent Delerm, melodia coperta da una patina ingiallita che sa di vecchi giornali conservati in soffitta con le notizie di un altro tempo. E se il passo terzinato da balera di “Piove a Nagasaki” risuona straniante mentre si lascia dolcemente uccidere dalla minuscola eco dell’autotune in sottofondo, lo scenario sordido di “Maria Maddalena” è l’esempio perfetto di quel divario fra testi e musica di cui si diceva, materiale degno di un Pieralberto Valli o di un Alessandro Fiori con corollario di derive classicheggianti ed aloni sottilmente malsani.

“A te” è una canzone d’amore toccante e sfacciata, parole dalle viscere dell’anima, rigonfie di un sentimento mai di seconda mano, elegante e profonda alla maniera delle belle penne d’antan, come le poche ancora attive oggi (Pippo Pollina, Sergio Pennavaria, Alessio Alessandra tra gli altri). Chiude “Il Lido di Venezia”, specie di ballata storta sdraiata su un rullo di tamburi, al termine della quale ti chiedi spontaneamente se quella mezz'ora trascorsa in compagnia di Francesco Sacco sia stata davvero così facile, così piacevole, così distensiva. Sontuosa certamente sì. (Manuel Maverna)