ROBERT WYATT  "Rock bottom"
   (1974 )

Una cosa va detta prima di tuffarci in “Rock Bottom”; Robert Wyatt, già coi Soft Machine, ci aveva dimostrato di non essere uno sprovveduto. Ad un’innovazione straordinaria del codice espressivo, dovuta anche al momento personale dell’artista, si unisce una perizia tecnica ed una capacità di composizione non comuni, ulteriormente ampliata dagli ottimi musicisti che lo accompagnano. Forse è per questo che il disco parte da dove altri non erano ancora arrivati. Il progressive ed il cantautorato più sopraffini sono una solida base su cui forgiare qualcosa di completamente nuovo. Questo disco passa inesorabilmente per quel giugno del 1973, quando il povero Wyatt cadde da una finestra e fratturò la spina dorsale, rimanendo per sempre su una sedia a rotelle. La musica di questo disco è quindi dettata dalla situazione tragica e dolorosa dell’artista. È una sorta di raffigurazione del dolore. “Sea Song” è introdotta da tastiere che paiono rilassate, ma subito diventano subliminali, perturbate dalle incursioni toccanti al pianoforte e dalla magnetica elettricità che aleggia sul cantato dimesso e straziante. Poi, come in tutto il lavoro, i sentimenti prendono il sopravvento sulla musica e la trasformano a loro piacimento. Così, la melodia amara lascia posto ad un vero e proprio canto dell’anima in una dolente deriva verso il nulla, tra sonorità cupe e armonie taglienti. Basta la prima traccia per assaporare l’emotività ineguagliabile di questo album. L’atmosfera si fa notturna ed oppressiva con “A Last Straw”, seconda traccia che accentua l’intensità dell’opera; i suoni si fanno sempre più irriconoscibili; gli strumenti suonano sempre più come voci dagli abissi, fino a trasformare il tutto in una poderosa confessione personale, immersa nella solitudine. Attenzione, ci si può perdere facilmente in questo divino caos; si rischia di essere catturati da questa irripetibile carica ipnotica. “Little Red Riding Hood Hit The Road” porta il caos ad un livello sublime, in un intrecciarsi famelico di fiati e gemiti, accompagnati dalla ritmica serrata che non ci permette di riprendere fiato. Siamo costantemente immersi in un oceano di dolore. Dolore perfettamente espresso da “Alifib”; ritmata da dei respiri affannosi e dipinta da tastiere funeree, questo lento canto di morte è uno dei momenti più strazianti del disco. I giochi di tastiere ergono un muro di nebbia e panico che potrà lasciarvi indifferenti, ma se siete alla ricerca di un po’ di umanità, vi stravolgerà il cuore. Di certo con “Alifib” si passa ad un livello superiore di musica rock, anche perché questa è musica senza forma, fatta solo di contenuti strabordanti. A dare il tocco di grazia ci pensa Wyatt con una delle sue melodie più struggenti, un vero canto dall’oltretomba della sua situazione fisica. Questo canto doloroso prosegue con la confusione disconnessa di “Alife”, in perfetta continuità. Si assiste ad un vero e proprio evolversi del dolore verso il caos, lo sgomento e la rabbia. Wyatt canta straniato in una sarabanda tumultuosa. Non si ha un climax emotivo, bensì un costante catarsi che sembra non sfociare in niente. L’ultima traccia “Little Red Robin Hood Hit the Road” è forse la più interessante musicalmente; un turbinio di suoni sostenuto da un ritmo marziale che dà slancio al canto ossessionato. Il finale è di quelli che lasciano l’amaro in bocca; un discorso amaro ricamato da archi monocromi e da un’intensa nebbia della mente. La vera innovazione di “Rock Bottom” è che la musica si plasma su ciò che si vuole trasmettere e non il contrario. Oltre ad essere il primo a compiere questa evoluzione, il signor Wyatt è l’artista che meglio è riuscito a creare qualcosa di completamente subordinato al suo ego, musica che rimane proprietà dell’autore ed anzi, ne diventa la raffigurazione artistica. Robert Wyatt, passando attraverso il dolore personale, estrapola davvero l’essenza della musica rock e la espone senza utilizzarne gli strumenti espressivi, bensì con una inconsistenza formale che lascia il maggior spazio possibile al sentimento, alla sensazione. È il culmine dell’evoluzione concettuale di rock, non si andrà mai oltre questo limite estremo, cuore pulsante di tutto ciò che la musica sarà nel XX secolo. (Fabio Busi)