AMUSEMENT PARKS ON FIRE  "An archaea"
   (2021 )

Mi piace pensare che celato dietro lo sguardo dolcemente perso di Michael Feerick pulsi un piccolo mondo di raccolto intimismo, sfregiato da quel suono così antico, eppure sempre attuale: il gioco è vecchio, ma piace ancora, si chiama shoegaze e fa proseliti, retromania o curiosità che sia.

Creato nel 2004 come act solista, il progetto Amusement Parks On Fire è rimasto tra le mani del suo padre e padrone come un oggetto transizionale, lo stesso che in molti ci ostiniamo a tenere sul cuore, disinteressandoci con candore del perchè. Ogni nuova uscita degli Amusement Parks On Fire è già di per sè un evento da celebrare con la dovuta enfasi, almeno tra gli adepti del riposto culto sotterraneo della band di Nottingham, riemersa dalle brume del tempo dopo un silenzio durato sette lunghi anni, iato interminabile tra “Road eyes” (2010, terzo lavoro dopo l’esordio eponimo del 2004 e “Out of the angeles” del 2006) e la rentrée, marcata dal singolo “Our goal to realize” (2017), dal breve ep “All the new ends” e dalla raccolta di rarità “Thankyou violin radiopunk” (2020).

Ad oltre due lustri da “Road eyes” esce per EGB Global “An archaea”, quarto album in diciassette anni di carriera, dieci nuove tracce che si muovono sinuose lungo lo medesima orbita, svenevole miscela di melodie frammentate, spezzate di continuo da inattese asperità sparse ad arte tra i cocci di un pop (tra)sfigurato ed impalpabile.

In un trionfo di accordature aperte e riverberi assortiti, a prevalere è un avvolgente, dilagante sentore di carezzevole nostalgia, quella sublimata nell’ingorgo congesto di “Breakers”, la stessa che esplode nella bordata à la Swervedriver di “Boom vang” o innerva il commiato dimesso di “Blue room”. Lo sviluppo dei brani è soprendente, affidato sì spesso ad un uso massiccio di strati impenetrabili di feedback (“Old salt”), ma trafitto da minuscole dissonanze (“Atomised”), da giri sporchi affogati in evoluzioni impreviste, da variazioni armoniche che suonano sbagliate mentre conducono altrove nello spazio di qualche battuta: emblematici i sei minuti di “Aught can wait”, sulla falsariga della magistrale “Infernal flame” contenuta in “All the new ends”, un maestoso crescendo vorticoso che irretisce e confonde, così come la title-track, aperta da una linea di pianoforte beatlesiana e spinta a forza in una tesa, soffocante cadenza marziale.

Sporadiche trame eteree (“Gamma”) ed incursioni in territori post (“Diving bell”) mitigano appena un potente ibrido tra My Bloody Valentine e DIIV, Silversun Pickups e Pains Of Being Pure At Heart. E’ il punto di osservazione ad essere differente: mai allucinato nè visionario, non violento o problematico. Conserva invece intatto un romanticismo introverso che striscia sinuoso fra le larghe maglie di una musica fragorosa ed intensa, spesso satura all’inverosimile, frequentemente declinata in maggiore ma ugualmente afflitta.

E’ una tristesse ben poco malinconica, più che altro una sorta di catarsi ottenuta attraverso divagazioni talora tortuose, deviazioni che riescono a pervertire – pur rimanendo lievi – la struttura di brani rigonfi di pathos, incombenti, sul punto di deflagrare ma immancabilmente trattenuti ad un nonnulla dall’acme.

Canzoni che sono ricami rischiarati da lampi di luce folgoranti, tessiture intime, arabeschi ipnotici ed attraenti. (Manuel Maverna)