IL TESTAMENTO DEGLI ARCADI  "Il Testamento degli Arcadi"
   (2021 )

L’apparenza inganna. O forse no. La suggestiva immagine di copertina con quattro scheletri mantellati che ho associato alla spiritualità macabra delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo (ricordando il sano monito tardomedievale memento mori, inconfessabile tabù della nostra era digitale postmoderna - post-umana? - dominata dall’hybris narcisistica) d’acchito richiamerebbe i più classici canoni figurativi del death metal ed affini filoni del variegato oceano metallico, ma come spesso accade le prime impressioni portano fuori strada. L’interno copertina, col suo blu intenso e sfumato, fa da sfondo ai contenuti di un artwork curato nei minimi dettagli e confezionato su misura per la taglia musicale che ci attende.

Frutto di un intenso lavoro progettuale ideato e prodotto nelle infaticabili fucine della Lizard Records, l’esordio discografico de Il Testamento degli Arcadi (attori-musicisti: John Koeing: Alessandro Seravalle; Paul Morrow: Mirko Baruzzo; Alan Carter: Milo Furlan; David Kanu: Gianluca Tassi, con Luk Ferro: Lorenzo Giovagnoli; Bob Mathias: Simone D’Eusanio; Anton Zoref: Mariano Bulligan) ci proietta in una dimensione filmica costruita su una originale sintesi di eterogenee influenze dove il refrain melodico lascia spazio alla ricerca avant-rock, risultato non certo sorprendente vista la presenza ispiratrice di un Alessandro Seravalle non nuovo alla sperimentazione.

Nel susseguirsi delle tracce ritroviamo declinazioni rock, dal kraut settantiano (Tangerine Dream, Popul Vu), allo space (Ozric Tentacles), al progressive con venature psichedeliche, pur con tutti i limiti delle etichette più volte sottolineati: come ci ricorda Gregory Bateson (Mente e natura, tr. it. Adelphi, Milano, 1984), occhio a non confondere la mappa con il territorio.

Il “testamento arcadico” è scritto con un andirivieni di tastiere “isteriche” (per dirla con l’omonimo brano di Gianni Leone), ossessive, eteree o distensive, intercalate da chitarre acide o graffianti, sorretto da una ritmica dispari talora volutamente nervosa, talaltra di richiamo tribale, che delinea un sound ipnotico insensibile alle seduzioni dell’easy listening. Ci si trova così all’interno di una barriera impermeabile ai richiami delle sirene post-moderne che vorrebbero tacitare le attitudini alla ricerca interiore (il noto gnōthi sautón, conosci te stesso iscritta nel tempio di Apollo a Delfi ripreso da Socrate) a vantaggio dell’ideale distopico del perfetto consumatore acritico ed iperconnesso.

Ebbene sì: anche nel nostro paese la voglia di sperimentare itinerari sonori in grado di esprimere la complessità e le dissonanze dell’esistenza non è ancora finita nel tritacarne mediatico, né soggiace ai diktat dell’obsolescenza programmata. Gli alchimisti delle sette note e più in genere chi non si accontenta del fast-food discografico preconfezionato ad arte (a quando gli equivalenti musicali degli insetti edibili in via di sdoganamento nelle nostre tavole?) sono invitati a cogliere l’occasione. Scommetto che non resteranno delusi: buon viaggio. (MauroProg)