ROBERTA GIALLO  "Canzoni da museo"
   (2022 )

Parlare di Roberta Giallo può essere un gran bel problema.

Perché – diciamolo pure – fa molte cose, tutte bene: non si sa da dove iniziare, né dove si andrà a parare: di certo non si può rinchiuderne l’estro nell’angusto spazio di una recensione, nè circoscriverne l’opera snocciolando frequentazioni e collaborazioni a mo’ di cartella stampa. Lei – ne sono sicuro – non se ne avrebbe a male, anzi: ma renderle grazie in altra guisa è doveroso, benchè arduo.

Intanto, sono andato a spulciare su wikipedia l’elenco aggiornato delle fobìe: ce ne sono 357, tra le quali ho vanamente cercato quella che mi lega a Roberta Giallo e ad altri come lei.

Ahimè, non esiste, non l’ho trovata: ho la fobìa degli artisti. Mi spaventano, ma non i guitti da baraccone: solo quelli veri. Perchè sono altrove, lontani dal modo di essere dei comuni mortali, percepiscono sfumature che a loro non sono precluse come a molti di noi che li stiamo ad ammirare. Sono degli eletti, hanno un ruolo nella società, e se lo dice anche Woody Allen - seppure con tutti i distinguo del caso – una ragione ci sarà.

Ecco, Roberta Giallo è innazitutto un’artista. Ce l’ha nel sangue: non come qualcosa di costruito, piuttosto come qualcosa di preesistente, innato forse. Molti l’apprezzeranno in veste di cantante, ma è anche ben altro: musicista, compositrice, scrittrice, perfino attrice di cinema (ha debuttato nel 2019 come protagonista de “Il conte magico”, insolito lungometraggio di Marco Melluso e Diego Schiavo accolto con grande favore ed insignito di meritati riconoscimenti). Non può stare ferma – maledetta pandemia! –, si pasce di esibizioni, vive per la scena. Minuta e graziosa, tecnicamente mostruosa (è un soprano, per la cronaca), dotata di una vocalità unica e riconoscibile tra mille, non si atteggia a diva: lo è.

Di quelle che si vestono eccentriche con le piume di struzzo o un fiocco colorato in testa, ma non per farsi notare: perchè è un’artista dentro. E se si veste con le piume di struzzo o con un fiocco colorato in testa, non fa ridere nè passa per svitata: passa per artista, perchè è credibile fino in fondo in ciò che fa. Il suo è un canto al contempo squillante e stentoreo: desueto, si direbbe, nel suo flautato gorgheggiare d’antan che fa molto vieux temps, eppure così coinvolgente e fascinoso proprio perchè ammantato di un’aura antica calata nel presente.

Tutto questo – parlare di Roberta Giallo può essere un gran bel problema - senza ancora spendere una sillaba su “Canzoni da museo”, album pubblicato per GROdischi a quattro anni dal debutto lungo de “L’oscurità di Guillaume”, altro piccolo gioiello da rispolverare con cura e devozione.

Album impegnato, come avrebbero detto i critici di una volta: nove poesie che Roberta ha musicato ed arrangiato, donando alle liriche di Giovanni Gastel (anche letterato, ma soprattutto celebre fotografo, recentemente scomparso a causa del covid), Davide Rondoni (poeta, romanziere, saggista) e Roberto Roversi (poeta e giornalista, ben noto al grande pubblico per il duraturo sodalizio con Lucio Dalla negli anni Settanta) una sorta di universalità che trascende i dettagli.

Operazione che poteva essere un gran bel problema, ça va sans dire, ma che nelle mani di Roberta – artista vera – acquista una naturalezza sorprendente e intrigante: la bellezza affatto semplice nè immediata di “Canzoni da museo” si lascia percepire e godere solo dopo averla sfogliata come una margherita, fino a rivelare il cuore palpitante e la raffinatezza vagamente elitaria da cui origina.

Dal connubio tra la profondità dei testi prescelti e la calzante eleganza della musica composta per veicolarli scaturisce un milieu di raro equlibrio, qualcosa che inspiegabilmente esula da mode, generi e tendenze piegando a sè perfino il tempo ed i giorni che passano pigri, lasciando in bocca il sapore di melodie senza età: dall’eco deandreiana che permea “Ti ho creato padre” – con delizia d’archi e di vocalizzi - ai tropicalismi lievi che punteggiano il singolo “Fossi stato allevato dalle scimmie”, dalle rimembranze di chanson française de “Il canto della lavatrice” all’impeto che guida “Amo il fiore della tua malinconia” e “Parole” in un dedalo di frenesia emozionale, l’album è un compendio di garbata, sinuosa eleganza fatta canzone.

Lucio Dalla – nume tutelare, faro, scoperta ispirazione e dichiarata ascendenza – è acquattato in penombra fra le trame preziose di questi brani concisi ma intensi, nella carezzevole atmosfera da piano bar di “E’ questo andare che non è andare”, nella dilatazione morbida de “Il cielo contro cui Bologna”, nella chiusura trasognata e sospesa a mezzaria di “Approdato in quest’epoca come un naufrago”, commiato agrodolce in un trionfo di contrasti sul quale la figura di Roberta Giallo rimane ad aleggiare maestosa e suadente col suo canto di sirena.

Colta e popolare, altissima sopra le nostre teste. (Manuel Maverna)