I SPEAK MACHINE  "War"
   (2022 )

Nel bel mezzo del cammin di una vita che proprio rose e fiori non è stata, costellata di discese ardite e di risalite fino ad una pacificazione traballante mai del tutto definitiva, a 48 agitate primavere sulle spalle madame Tara Busch, defilata vestale di un ben conservato culto sotterraneo ed oscuro, si offre spoglia in pasto all’uditorio nella seduta psicanalitica di “War”, dodici tracce per quarantanove minuti composti e rifiniti nel corso degli ultimi cinque anni sotto il moniker I Speak Machine, già adottato dal 2013 in una delle sue molte precedenti reincarnazioni.

Da sempre impegnata in un complesso e sfaccettato percorso artistico, Tara forma dal 2001 un duraturo sodalizio col marito, il produttore, discografico e filmmaker gallese Maf Lewis, angelo salvatore che ne segnò la rinascita all’acme di un periodo buio segnato dalla depressione e da nefaste dipendenze.

Rinata a nuova esistenza, Tara ha intrapreso un difficile cammino alla ricerca dell’affermazione di sè, mai realmente liberandosi dei molti demoni personali che ancora oggi le tengono compagnia, ma in qualche misura strisciando a fatica verso l’uscita del tunnel.

All’insegna di un tetro post-punk dalle fortissime inflessioni industrial, algido e metallico, scandito da una ritmica metronomica e ossessiva, veicolato da un crooning profondo e malevolo, “War” imbastisce la narrazione di un martirio personale che – sebbene ricordi a tratti Reznor - resta imbevuto di una violenza spesso implosiva, racchiusa in testi sofferenti e problematici piuttosto che in una musicalità soffocante e plumbea.

Vicina al Marylin Manson di “Mechanical animals” nella cadenza noir di “Bloodletting (the vampire song)”, prossima ai Cure di “Pornography” nella sinistra cacofonia trafitta dalle staffilate acide dei synth di “Left for dead”, Tara vaga inquieta in una landa desolata, disegnando scenari allucinati da incubo (“Dirty soul”), oasi di effimera quiete (la stralunata lullaby di “I see you”), panorami apocalittici (il feroce boogie à la Ministry di “The metal of my hell”).

In coda, il martellamento claustrofobico à la Suicide di “Rats rise” separa i due episodi apparentemente più accondiscendenti: se “Push the grease” marca il limite ultimo dell’accessibilità con un synth-pop accomodante che ricorda la Siouxsie periodo “Superstition”, “Until I kill the beast” chiude profetica su una languida lamentazione che sa di tutto, fuorchè di redenzione.

Un sottile senso di inquietudine rimane ad aleggiare a mezzaria, lasciando in sospeso ogni ipotesi su come lo psicodramma potrà evolvere. (Manuel Maverna)