DEAF LINGO  "Lingonberry"
   (2022 )

Potete serenamente paragonarli o accostarli a chi vi pare e piace, i Deaf Lingo da Milano: restando tra gli autoctoni, e per indirizzare un minimo l’uditorio, sciorinano la medesima ferocia di Jesus Franco, a/lpaca, Marrano, solo per dirne alcuni.

Gaudeamus igitur, per questa mosca bianca in tempi di relativa penuria di caro vecchio rock chitarristico in casa nostra.

Leggasi: dieci bordate tipo schiacciasassi, una goduria di elettricità cattiva sparata in faccia a mille all’ora, con corredo di ritmi incalzanti, riff assortiti, ganci furbetti, chorus concisi, ma soprattutto con la spinta di un canto dispettoso, acidello e brusco quanto basta a scuotere le fondamenta di un’imponente cattedrale di suono.

A compiere questo piccolo prodigio, brutalizzando l’ossatura - tutto sommato scarna ed essenziale – di ventotto minuti frenetici e urgenti, sono Sandro Specchia, Yuri Ferrari, Gabriele Zaramella e Mauro Ronchi, alle prese col successore di “Bug”, esordio datato 2017 ed ancora legato ad un suono ruvido di evidente matrice 90’s.

Ratti come la folgore e con una sorprendente nonchalance da consumati veterani, imbastiscono un proficuo ibrido di trame abrasive e linee melodiche, non più così nascoste nel frastuono: canzoni brevi, efficaci ed ammiccanti, dritte al punto senza fronzoli o chissà quali orpelli.

Non che i quattro si siano ammorbiditi, anzi: ma rispetto al debutto, il nuovo “Lingonberry” (pubblicato per Lövely Records) mette a fuoco una scrittura che si fa più personale, o che semplicemente azzecca brani centrati ed accattivanti, intrisi di derive pop, di accenti glam (“Sleeping”), di echi garage (“Push it”), di boogie distorto (“Antisocial”) e di innumerevoli altre diavolerie. Esempi sparsi: “Failures” esordisce come un pezzo dei Bloc Party periodo “Silent alarm” e collassa in un ingorgo rumoristico; “Friends” fa la stessa cosa, ma dalle parti dei Libertines; “Reception” è hard-rock fragoroso che inizia à la Weezer e finisce in un chiassoso bailamme dalle parti degli Hives.

Ça va sans dire, non sbagliano un colpo, dall’intro attendista fino all’accoppiata di chiusura: la ballata stralunata di “Cars and houses”, che ricorda gli Zen Circus quando cantavano in inglese, e i cinque minuti della title-track, che col loro gradito bagaglio di feedback in crescendo spasmodico calano il sipario su un album encomiabile per intensità, furia, ispirazione. (Manuel Maverna)