MARRANO  "Carne ossa"
   (2023 )

Meno male che esistono i Marrano.

Dischi come “Carne ossa” si lasciano attendere per settimane, a volte per mesi, mentre il rock è in soffitta e tu spendi il tuo tempo a cercare di capire elettronica, avanguardia, neoclassica, post-qualcosa.

Ci vuole pazienza, ma torna la libidine, prima o poi.

Ouverture: quattro secondi di basso, altri otto di basso e batteria, altri dieci di basso e batteria e voce, altri dodici di basso e batteria e voce e chitarra intermittente. A seguire, deflagrazione nella bordata satura del chorus, che già la dice lunga sull’aria che tira. Anni sprecati ad aspettare tutto e niente. Sono passati cinquantasei secondi. Non servirebbe altro: potremmo chiuderla qui, c’è quanto basta a spiegare l’andazzo generale, cosa mi può più interessare?

No, troppo facile: bisogna invece doverosamente tessere le lodi dei Marrano, tre ragazzacci romagnoli ai quali occorre rendere grazie per questa musica feroce, dritta come un’alabarda, con la cassa pesante e il basso che rimbalza in gola, quel genere di musica amara e malsana che è negativa, prima ancora che dura. Canzoni dove tutto gira storto, con piccole storie ben poco nobili a ricordare quanto le cose vadano mediamente di male in peggio.

Nove pezzi prodotti da Davide Autelitano dei Ministri, una mezzora di tensione in purezza tra Fleurs Des Maladives, Latente, Vintage Violence ed il fantasma di Edda & co., ritmo e dolore fianco a fianco, il canto sputato fuori con tutta l’urgenza di chi grida verso terzi, ma con cognizione di causa. Tutto è sovraesposto, sparato in faccia, una colata di elettricità fragorosa stesa su testi grondanti sconforto e disillusione. Pessimismo & fastidio, mentre la nave va a farsi benedire e l’orchestra continua a suonare ritornelloni memorabili, tanto domani ti dovrai svegliare ancora con quel gusto in bocca.

Il trittico di apertura è devastante, una mitragliata ad alzo zero che non lascia scampo né dubbi. Il copione è scritto, “Ekomostro” e “Bruciare” rimasticano l’esistenzialismo buio di “Tutto (è niente)” lasciandosi alle spalle una scomoda sensazione di terra bruciata.

Lungi dal volersi rendere eccessivamente ostico, l’album rimane sempre masticabile: appoggiato ad un crudo realismo che fa a pugni come può e quando può, non rinuncia ad imbastire trame lineari e incastri melodici che rendano più digeribile il fiero pasto, friggi le polpette nella merda, buon appetito. Non è un’illusione, fatevi sotto bambini, non sentitevi in colpa: “Poveri diavoli” è davvero una perfetta canzone power pop, di quelle che ti va di cantare a gola spalancata in coda sulla tangenziale, anche se in realtà è un invito a prenderti la testa tra le mani, versando una lacrimuccia di afflizione. Succede anche per l’up-tempo di “Presto” o per l’ingorgo congesto de “In mente”: non temete, è normale, fa parte del gioco che gioco non è, e comunque non è mai divertente. Restano minuscole aperture, feritoie, spiragli o poco più, ed anche la chiusura apparentemente addolcita di “All’inferno c’è il sole” potrebbe essere una promessa di pace o il definitivo calare del sipario, o forse un viaggio a senso solo del quale è meglio non conoscere la meta.

E la domenica un magone tremendo/il lunedì peggio dello stipendio/e la strada che facevamo/è una pista veloce tutta contromano/e la domenica un magone tremendo/ti ricordi sembrava tutto perfetto/un giorno casca tutto addosso/ma la luce la vedi solo quando stai sotto.

Eventuali residue speranze – sia ben chiaro – moriranno soffocate all’alba di domani. Buon proseguimento. (Manuel Maverna)