MARC COPLAND QUARTET  "Someday"
   (2023 )

“Someday” è il nuovo disco del quartetto di Marc Copland, storico jazzista della scena newyorchese. Inizialmente sassofonista (negli anni '60), si dedicò in seguito al pianoforte, probabilmente perché sentiva l'esigenza di esprimersi sull'armonia, cosa che invece non si può fare con un fiato, che suona una nota alla volta. Infatti, Copland ai tasti neri e bianchi si fece poi notare negli anni '80 per il suo utilizzo dei policordi, ovvero la sovrapposizione di accordi diversi.

Esempio banalissimo: accordo di Do con la mano destra, accordo di Re alla sinistra. Ne risulta il Re11, che dà una sensazione rarefatta. Beh, magari il Re11 siamo abituati a sentirlo, e non è più così indeterminato (si usava frequentemente negli anni '70 nelle canzoni d'amore strappalacrime, come in “Desperado” degli Eagles), ma era solo un esempio per capirci. Ci sono decine di combinazioni più inusuali e ardite, spesso anche dissonanze, e Marc Copland le esplora tutte con passione e consapevolezza.

Il quartetto con cui incide questo nuovo lavoro è formato da membri altrettanto noti nella scena jazz: Robin Verheyen al sax, Drew Gress al contrabbasso, e Mark Ferber alla batteria. “Someday” è formato da otto brani, tre dei quali sono di Copland: “Spinning things”, “Round she goes” e “Day and night”. Due brani sono invece del sassofonista Verheyen, “Dukish” ed “Encore”. E poi abbiamo tre titoli di altri autori: “Someday my prince will come” di Churchill/Morey, poi “Let's cool one” di nientemeno che Thelonious Monk e “Nardis” di Miles Davis.

Che dire? Davvero, che dire? Che in “Someday my prince will come” le poliarmonie pianistiche fanno sentire ben chiara la firma di Copland? Che le acrobazie al sax di Verheyen sono notevoli? Che sorprende anche l'assolo di contrabbasso di Gress nel brano di Monk? E che Ferber ha un'energia coinvolgente ai fusti? Usare la parolina magica dei jazzisti, “interplay”, qui è cosa scontata. Anche senza vederli, si capisce che i quattro si intendono al volo, si leggono nella mente. Tutto fluisce senza fatica, e quasi dispiace fermare una traccia, a scopo analitico. Insomma, se non potete vederli dal vivo, premete play e ascoltate il jazz di New York! (Gilberto Ongaro)