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THE BLOODSTRINGS  "Heartache radio"
   (2023 )

Con buona pace dei Bloodstrings, quartetto tedesco originario di Aquisgrana, della Dackelton Records, che è la loro etichetta, della Bite It Promotion, che è il loro ufficio stampa, di voi venticinque distrattamente intenti a leggere, vabbè: questa non è esattamente una recensione. Somiglia ad una seduta di autoanalisi, ma molto serena. Ciò non toglie – ed anzi rafforza la questione – che “Heartache Radio”, terzo album in carriera, sia un gran disco: dritto, diretto, teso, semplice. Onesto, direbbe Tommi Marson.

Anyway, in ordine sparso, ma forse non così tanto.

La cosa che mi colpì quando vidi per la prima ed ultima volta i Ramones dal vivo al Rolling Stone di Corso XXII Marzo qui a Milano durante il tour di “Loco live”, fu il fatto che non avessero in scaletta alcun pezzo lento. Neanche poco veloce, diciamo. Lo sapevo, li conoscevo, ma a volte vederti sparare in faccia l’evidenza fa un altro effetto. Non li ho mai particolarmente amati, perché non mi suggeriscono cattiveria: però la botta fu tremenda, va detto. Peccato che appena un dieci per cento della loro discografia contempli tonalità minori, ma questa è una faccenda di gusti personali.

Sulla pagina “chi siamo” di Music Map, ciascun redattore fornisce una breve presentazione libera di se stesso. Ecco, non è vero che i Cure siano la mia band preferita: cioè, lo sono stati per un certo periodo, ma poi non più. L’ho scritto solo perché se il mio amico Luca leggesse qualcosa di diverso, mi toglierebbe il saluto, e non va bene, dopo quarantotto anni che ci conosciamo. Il mio gruppo preferito da oramai quattro lustri sono i Dover, band spagnola che canta in inglese, scioltasi nel 2016 dopo scintillante grandeur e mesto declino. Come i Ramones, non hanno un pezzo lento in repertorio. Inoltre, grande differenza, il novantacinque per cento dei loro brani sono in tonalità minori, è una faccenda di gusti personali. Li amo follemente, ed altrettanto follemente sono innamorato di Amparo Llanos, una delle due sorelle del quartetto. L’ho sempre ammesso, mia moglie lo sa, amen.

La settimana scorsa sono stato con la suddetta moglie, nostra figlia sedicenne, cognato e figlia sua sedicenne a Usmate Velate all’evento “Per un pugno di curnitt”, uno di quei bei ritrovi estivi all’aperto dove puoi mangiare ai tavoloni ed ascoltare musica dal vivo. Non è che ci siamo andati per caso: una delle due band in cartellone erano i Vintage Violence, quartetto di Lecco che da qualche anno ho concluso essere la mia band italiana prediletta tra quelle ascoltate nell’ultimo decennio. Escludo i Cani, perché in pratica Contessa è un solista con una backup band, ed escludo Afterhours e CCCP perché oramai, come avrebbe chiosato mio padre buonanima, “sono come le patate: il meglio di loro è sottoterra”. Ecco, un atout dei Vintage Violence, che cantano in italiano, è che non hanno un pezzo lento, tranne forse “Senza paura delle rovine” che è più una cadenza rallentata. Quasi come i Dover, il novantadue per cento delle loro canzoni sono in tonalità minori, il che le rende al mio orecchio deliziosi, piccoli intrattenimenti musicali. Aggiungo che mia figlia – religiosamente devota agli One Direction – perde il controllo ai primi versi de “I non frequentanti”, “Caterina”, “Metereopatia” o “Astronauta”, quindi perfetto, ho fatto un buon lavoro.

Poi ci sono i Bloodstrings, dei quali dicevo in apertura e che meritano di prendersi la scena: “Heartache Radio” è non solo l’album della settimana, ma anche la recensione che rimarrà esposta in homepage per ben due mesi, ché quest’anno la nostra pausa estiva è lunga assai. E allora via con questa mezzora abbondante di sassate, pezzi pestoni in quattro quarti lanciati a mille all’ora tra schitarrate punkettone (perdonate la terminologia desueta, ma qui è tutto desueto), ritornellacci sgolati-ma-non-troppo che la vocalist Celina Baluch ti butta in faccia come vetriolo mentre la band macina instancabile la sua elettricità corposa e aggressiva. Circa il novanta per cento dei pezzi sono in tonalità minori, conditi da riff, assoli, impennate micidiali, mitragliate di drumming forsennato (“Burning hearts”), cori anthemici: ricordano - eccome - i Dover, e già questo è bene, basta un pezzo come “Short way down” a rievocare i miei amati madrileni con tanto di lacrimuccia. In realtà, ingannano con gli ottantuno secondi dell’introduzione, una melodia trasognata – ripresa nella coda simmetrica - che lascia presagire chissà quale sviluppo. Ma è uno scherzo: da lì in avanti, lasciate ben volentieri ogni speranza perché ha inizio una festa affatto mesta a base degli ingredienti già elencati. Azzeccano tutto, ivi compresi chorus memorabili (“Don’t die”, “The bottle talking”), boutade feroci (“Colourblind”), schegge di follia a un passo dal grindcore (“Shut your face”, “Ich hab’s schonmal gesagt”), trovate estemporanee come l’ingorgo di una “Love’s Labor’s Lost” che si infila perfino in qualche battuta di ska mentre cita i Rage Against The Machine, insomma un gran bel campionario.

Che ci volete fare, è che sarò vecchio, sarò passato, ma certe cose ancora mi smuovono qualche residua emozione in questo mondo di contaminazioni, nel quale – diciamolo, nostalgici - tocca sgomitare perché quel po’ di rock superstite faccia ancora capolino tra i vapori variopinti della nuova musica del nuovo millennio della nuova era, ecc.

Per fortuna, esiste gente come i Not Moving, come i Vintage Violence, come i Bloodstrings. Voi chiamatelo revival, testardaggine o resistenza, poco conta: è uno sporchissimo lavoro, ma grazie al cielo qualcuno vuole ancora farlo. (Manuel Maverna)