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WAKE UP IN THE COSMOS  "Keine strasse"
   (2024 )

Nel caso abbiate una certa predisposizione ad ascolti non esattamente allineati, impiegherete circa dieci secondi per concedere a questo disco la chance di lasciarsi ricordare e la gloria di un riascolto compulsivo.

Nei primi dieci secondi dell’opener “When I Was Ten” succede tutto quello che si può desiderare da una band di orientamento off che fa rock (esiste ancora, venghino gente!), ma non proprio rock: piuttosto, psichedelia psicotica, rumorosa e nervosa, a tratti suggestivamente lisergica come ai bei vecchissimi tempi che quasi tutti non abbiamo vissuto in diretta.

L’attacco è micidiale, un quattro quarti canonico sparato veloce, due battute a vuoto con piccole increspature elettriche che si fanno largo in sottofondo; al secondo 11 attaccano le chitarre e il basso, al secondo 28 entra la voce, che è filtrata e tale rimarrà più o meno per tutto il disco, al minuto 2’ e 12” parte un’accelerazione assassina che sembra farina del sacco dei Ministry, gaudeamus igitur. Il pezzo è una sberla, tre minuti a rotta di collo che potrebbero già bastare a nobilitare l’intero album, così sulla fiducia; ma a questo punto la curiosità divora, benvenuti nella promessa selva oscura, tre passi avanti con tanti auguri e la speranza che il resto sia degno dell’ouverture. E, santo cielo, lo è.

Laggiù nel buio – al massimo in penombra – si agitano i Wake up in the cosmos, scritto proprio così con le minuscole, quartetto toscano al debutto lungo con le sette tracce per Overdub Recordings di questo consistentissimo “Keine Strasse”, ventisei minuti di pura eccentricità non-equamente-ripartiti tra echi garage, ragionate stramberie art-rock (la title-track, non lontana dai Bodega), tribalismi spiazzanti à la C’mon Tigre (“Ziggurat”), oasi di pinkfloydiana memoria (la dolcezza ingannevole di “Berenice”, con delizioso sviluppo finale) ed un inesauribile assortimento di efficaci trucchi di scena.

Musica difficilmente codificabile, vaga in varie direzioni con piena e purissima libertà espressiva, seguendo unicamente il fil rouge del suono, velato ad arte da una patina di psichedelia retrò, sia che i brani spingano sul ritmo, sia che si plachino in oasi di effimera quiete, memori sì di atmosfere a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, ma imbastarditi con tutto quanto offre oggi il mercato. E allora avanti con la saturazione vorticosa di “Sensual Crime”, che inizia come un pezzo dei Subways e si infila in un adorabile dedalo di distorsioni, con le inflessioni surf (sic!) di “Outside-Inside” – più Iggy che Beach Boys, con corollario di sottile cattiveria sottotraccia – e con il finale sibillino di “Fruhstucken”, aperta da una cadenza zoppicante à la Black Midi e chiusa in una dilatazione sospesa, come una risata sardonica lasciata risuonare a mezzaria.

Album solido, intrigante e versatile, manifesto programmatico di una band dalle mille possibilità evolutive, scaltra e creativa come poche altre in circolazione. (Manuel Maverna)