ZOO ESCAPE "Zoo Escape"
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Questo disco può trarre in inganno, eccome.
Voglio dire: ascolti i primi due pezzi e pensi di trovarti al cospetto degli ennesimi cloni di certo punk albionico, con tutti gli ingredienti tradizionali al posto giusto, i chitarroni, i ritornelloni, i cori anthemici.
Canto frontale, drumming sparato, riff taglienti, power chords. Bello, eh? Incalzante, arrembante, vivace e compatto q.b. come da ricetta tradizionale. Ci senti i Clash in ogni accordo, in ogni sillaba che il signor Marc Villon ti sputa in faccia, con quell’accento così ben impostato, quasi teatrale nella sua riproposizione del canone che ben conosciamo.
Poi vai avanti, e ti accorgi che c’è molto di più: non solo la scintillante copia del già sentito, che fa sempre e comunque piacere, ma anche un’allettante rilettura dei mostri sacri in chiave personale. La base è sì un gradevole power pop di matrice prettamente british (scordatevi il punk californiano, qui siamo proprio altrove, sia nella scrittura sia nell’approccio), tosto e tenace, ma condito da una creatività intrigante, capace di giocherellare con i balocchi del mestiere in modi del tutto peculiari. Non disperde niente delle origini, non nega i riferimenti, ed anzi: valorizza, aggiunge, modernizza.
Questi baldi ex-giovani, artefici del piccolo prodigio di cui sopra, sono gli Zoo Escape, quintetto tedesco originario di Monaco di Baviera, gente in giro da poco meno di tre lustri a reggere il vessillo di una musica immortale, che continua a funzionare nonostante gli anni sulle spalle. A sette anni dall’esordio lungo di “Dirty Laundry”, tredici nuovi pezzi martellanti e asciutti su etichetta KOB Records segnano un ritorno solidissimo, efficace, accattivante: sia chiaro, niente di sconvolgente, sperimentale o innovativo, ma per mettere in fila trentasei minuti così ci vogliono stile, caparbietà, mentalità.
Oltre che una gran bella penna, perché certi chorus, ganci, variazioni non si improvvisano.
E allora: i giri restano alti, la sezione ritmica picchia indefessa, le idee scorrono fluide nel più classico connubio di frenesia e melodie-killer, un misto di esaltazione e sfuggente malinconia (emblematica “Love affair”) da mandare a memoria e latrare a squarciagola sotto il palco di qualche sperduta venue di periferia.
Addirittura, ci sono guizzi - l’inciso di chitarra di “Missing”, il pathos di “One way camera”, il passo semi-baggy di una memorabile “Something in the Water” - che lambiscono lande indie-pop, da qualche parte tra Franz Ferdinand e Libertines, con punte di eccellenza raggiunte nel trittico finale: l’armonioso ingorgo à la Offspring (questa sì, lo ammetto) di “Cuckoo”, il divertissement contagioso di “Alien boy” (falsa partenza anni sessanta e sviluppo in un refrain semplicemente devastante), la chiusura amara, dritta e focosa di “Waterbed”, che cala il sipario sull’ennesima geniale intuizione, suggello ad un album di strabordante intensità, a tratti elettrizzante, ricco di sincera urgenza e idee a profusione. (Manuel Maverna)