KINSELLA & PULSE, LLC "Open ing night"
(2025 )
Spesso indefinibile, se non ricorrendo all’ombrello salvifico del cosiddetto art-rock, sotto al quale ricondurre le propaggini sciolte della meglio musica contemporanea ibridata in ogni possibile foggia, “Open ing Night”, pubblicato per Kill Rock Stars, è il nuovo capitolo della trentennale carriera di Tim Kinsella, originario di Chicago, iperattiva eminenza grigia, attivo fin dal lontano 1994 in un sottobosco che (ri)unisce le più disparate influenze, tendenze, deviazioni da qualsiasi canone, genere, moda.
Dagli albori come Cap ‘n Jazz, passando per Joan of Arc, Owls e svariate altre collaborazioni, oggi Tim è stabilmente impegnato con la consorte Jenny Pulse nel progetto Kinsella & Pulse, LCC (già Tim Kinsella & Jenny Pulse, precedentemente Good Fuck); col determinante apporto di Theo Katsaounis e Cooper Crain, l’ensemble tesse la sua tela in quarantatré minuti ondivaghi e cangianti, alternando voci, azzardando soluzioni, ricamando brani che sottraggono di continuo riferimenti e appigli, senza mai smarrire ispirazione, creatività, imprevedibilità.
Apre il battito ipnotico di “Sally”, singolare idea di blues mascherato e modernizzato, sostenuto da figure di chitarra che lambiscono a tratti le movenze sinuose di certo rock sahariano: il passo è incalzante, il groove melodioso ma incombente, il timbro vocale di Jenny - quasi una Hope Sandoval meno fanciullesca e più sensuale - è docile ed ammaliante. E’ solo l’incipit, uno dei molti trompe-l’oreille di cui è costellato l’album, che dispensa intuizioni e trucchi raffinati mentre gioca a nasconderli.
Così, metà degli otto minuti di “Love” sono occupati dalla ripetizione strumentale di una parte del tema, mandata in loop a produrre un effetto straniante e sospeso, accresciuto dal collasso congesto e rumoristico del finale; “The Game, The Play, The Drama, The Dream”, interpretata da Tim, fluttua esitante e sorniona, infilandosi in un crescendo slegato privo di accenti ritmici, un tourbillon di noise astratto à la Flying Saucer Attack; “Quiet” muta l’incedere percussivo in un dream-pop a due voci dalle venature psych.
L’impressione generale è di trovarsi al cospetto di una costruzione concettuale elegante e colta, una dotta architettura post-qualcosa che va oltre le definizioni, superando limiti strutturali - come fu per il post rock di prima generazione – senza approdare a nulla di specifico, ottenendo esattamente ciò che si prefigge.
All’insegna di un astrattismo gentile, mai spinto o eccessivamente cervellotico, vanno in scena le svagate suggestioni jazzy di “Brutal, The Way You Like”, con insistito controtempo, canto suadente, timide disarmonie ed inciso ingannevolmente fruibile, presto inghiottito da nuove contorsioni; ma anche le dissonanze di “Watch and See”, algida drum-machine e basso à la Jah Wobble, con intrecci chitarristici albiniani, flow desertico, urla parossistiche di Tim a condire l’outro; o ancora le pacificate atmosfere bucoliche di “Cracked Factory Wall”, folk laid-back introdotto da un arpeggio memore di Mark Kozelek, sottolineato dall’introversa intensità del recitativo.
Chiude l’album la cadenza insinuante di “Immanence”, ritmo saltellante con chitarra riverberata, l’episodio più accondiscendente del lotto, avvolto nel crooning sexy di Jenny: il pezzo è incredibilmente catchy - ed è tutto dire - ma va alla deriva in un minuto e più di nulla, con vibrafono sibillino ed elettricità dissolta in frasi inconcluse. Rimane l’impressione, vivida e pulsante, di una musica coinvolgente dal fascino sottile, rifinita e cesellata, espressione enigmatica di un’arte sfaccettata ed estrosa. (Manuel Maverna)