DAVIDE AMATI "Davide Amati"
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Di solito, misuro il gradimento di un disco da quanta voglia abbia di riascoltarlo non appena finito.
Secondariamente, da quanto le canzoni – qualcuna, molte, tutte – mi rimangano in testa, costringendomi a canticchiarle compulsivamente nelle più disparate situazioni.
Terzo e ultimo: da quanto faccia il suo dovere di intrattenimento – impegnato o disinvolto, poco conta – durante i viaggi in macchina, il tragitto in metrò, le passeggiate al parco.
Queste le premesse per ragguagliarvi brevemente sui ventiquattro focosi minuti che Davide Amati, chitarrista e cantautore classe 1998, romano di nascita, romagnolo di adozione, dispensa con veemente urgenza, tra bordate di hard-rock squadrato e deliziose digressioni melodiche buttate lì con nonchalance tra un riff e l’altro: brani compatti e spinosi, che riecheggiano indifferentemente Pan Del Diavolo e White Stripes, delineano il perimetro entro il quale Davide si destreggia con agio e slancio, prediligendo una scrittura secca, asciutta ed incisiva, fatta di molto ritmo e di ganci allettanti, furbetti, efficaci.
In queste otto tracce, incalzanti e grintose, c’è tutto il campionario di trucchi e magheggi che separano un buon disco da un disco veramente riuscito: apre “Rabbit”, riff assassino e chorus altrettanto; prosegue sulla stessa linea “Campi Elisi”, che mi ricorda certi Afterhours e che mi ha costretto ad alzarmi dal letto una domenica mattina perché continuava a rigirarmi in testa e non riuscivo più a riprendere sonno; chiude il trittico iniziale “Amore Mio Che Fai”, piglio muscolare ed altro refrain killer a segno.
Il mood è disimpegnato ma sincero, i temi affrontati lievi quanto basta ad evitare derive cervellotiche o inessenziali digressioni erudite: è un gran bell’andazzo, a base di incisi taglienti, assoli brevi e ficcanti, ritornelli centrati, canto – espressionista, ma non troppo - tra il cattivello ed il goliardico. Insomma: uno sfoggio di diavolerie assortite che iniettano linfa velenosetta in pezzi sì ruvidi, eppure così golosamente orecchiabili, sciolti, godibili.
Ad esempio, “Baby R & R”, che richiama qualcosa delle Vibrazioni dei tempi d’oro, offre un arpeggio melodioso con accordi vagamente psych; “Ti Amo di Brutto” sussulta su una cadenza un po’ Kinks e un testo simpaticamente scaltro; e poi c’è “Baciarti Bruciarti”, che pare catapultata qui dagli anni Sessanta e che infila un paio di versi memorabili, tipo: ho dato fuoco a quelle foto/che ti ho scattato in un bel giorno/io non volevo farti male/se non posso baciarti, bruciarti era l'unica cosa da fare con te. C’è allegria, in fondo, come nel divertissement piccantino di una “Sexy Sceriffa” che – ne sono sicuro – piacerebbe a Edda, o nella chiusura ciondolante – con robusto finale elettrico in dissolvenza - di “Tu Sei Tu”, stile ultimi Verdena.
C’è – immancabile, gradito - un tocco di leggerezza che serpeggia sibillina tra queste schegge di rock grezzo e brillante, schietto e brioso, curiosamente disallineato nonostante le apparenze, una botta di vita prêt-à-porter adatta ad ogni occasione, perfetta per il risveglio della domenica o per alleviare le pene di un ingorgo dalle parti di Castel San Pietro Terme. (Manuel Maverna)