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POSTCARDS  "Ripe"
   (2025 )

Sovraccarico di tutto, di parole pesanti e sentimenti contrastanti, di pathos e afflizione, di contenuti e suoni, di vita, storie, drammi personali e universali, “Ripe”, su etichetta Ruptured/T3, è il quinto album nella carriera ultradecennale dei Postcards, trio libanese formato da Julia Sabra (voce e chitarra), Pascal Semerdjian (batteria) e Marwan Tohme (chitarra e basso), i quali mi hanno costretto a fermarmi più volte durante l’ascolto: per meditare, per riflettere, per godere, per lasciar depositare le scorie dei brani precedenti come la polvere nel caffè turco.

Sì, perché l’intensità sprigionata da questi quarantuno minuti di apparente shoegaze/dream-pop rivisto e corretto è a tratti insostenibile: nessuna traccia è indolore, nessuna è meno che fitta, densa, compatta.

Destroy, rebuild/you know the drill/destroy, rebuild/repeat and kill, dichiara programmatica in apertura “I Stand Corrected” col suo fluire inquieto, contrappuntato da un gorgheggio ammaliante e preludio all’impeto strabordante di “Dust Bunnies”, ingorgo di elettricità disturbata in crescendo, disperazione sublimata dalla vocalità prorompente di Julia, plasmata in infinite sfumature di angoscia e tormento.

Il clima è plumbeo, l’aria pesante, nessuna requie mai: quello descritto con vivida tragicità è un piccolo mondo sfigurato, chiuso in se stesso e testimone silenzioso di un destino ineluttabile, con le uniche scintille di redenzione affidate ad un’idea primigenia di passionalità carnale ed estrema, afflato salvifico che è balsamo o veleno. E’ il leitmotiv di “Poison”, portata a spasso da una cadenza del basso à la Simon Gallup e sventrata da un marasma di distorsioni, dichiarazione d’amore stracciata e ricomposta, fino all’epilogo: I would lick all your open wounds/if you’re ever bleeding/rip off my skin/to keep you warm if you need it.

Sangue e sofferenza ritornano ossessivamente, mischiati a dolci dichiarazioni di devozione eterna, con in testa il lento arpeggio trasognato di “Nine” - voce à la Liz Fraser, lovesong morbida e smarginata, lasciata fluttuare a mezzaria come uno spettro gentile – ed il rallentamento introverso di “Wasteland Rose”, spoglia e celestiale, oceano di desolazione affogata in una nebulosa di rumore bianco.

Il mood rimane invariabilmente triste e sconsolato, intriso di una sottile, strisciante tensione che si cela dietro il paravento di melodie ampie e sinuose: così, “Angel” procede notturna e fosca, quasi un pezzo dei Morphine tra le mani di Gibbons e Barrow, col basso a scavare solchi, trincee e ricordi, amore & morte fianco a fianco, mano nella mano, a non più di un soffio di distanza; “Construction Site” è una mesta ballata che narra di guerra e sopravvivenza, del tentativo di lasciarsi tutto alle spalle, tendendo la mano a quel sentimento che (forse) ci salverà ancora o ci farà a pezzi, come fosse uno soltanto tra gli ordigni che non cessano di deflagrare; “Ruins” dipinge lo scenario della catastrofe, con un drumming forsennato e tortuoso sul quale si intrecciano linee armoniose, quasi i Cure di “Pornography”, ma col canto di sirena di Julia a tessere la sua tela di contrasti e amarezza, mentre la batteria martella, metronomica e feroce come un bombardamento incessante.

Chiude “Dark Blue”, morbida e jazzata, soffice e distesa sul filo di memorie e speranze: per un breve momento nel tempo, suona finalmente pacificata, mentre ripete in coda il suo ritornello soave, che sa di buoni auspici, chissà per quanto ancora. (Manuel Maverna)