GOODBYE, KINGS "Transatlantic//Transiberian"
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Affatto lineare, scontata, prevedibile, la parabola in fase costantemente ascendente dei Goodbye, Kings - nutrito ensemble milanese attivo da due lustri in una ben protetta nicchia all’ombra di un post-rock sui generis, peculiare e non derivativo - tocca un nuovo apice in “Transatlantic//Transiberian”, pubblicato per Dunk! Records e Overdrive Records a tre anni da “The Cliché Of Falling Leaves”, dando ulteriore sfoggio di quella misurata classe e non comune raffinatezza che già connotavano i precedenti lavori.
Costituito da due lunghe composizioni di oltre venti minuti ciascuna, concepite come suite articolate e sfaccettate, omogenee e fluide nel loro incedere placido e meditativo, di rado scosse da graduali variazioni più vigorose, l’album è un ammaliante saggio di arte varia e potenza immaginifica, quasi fosse la colonna sonora di un film solo mentale, celato alla vista, da lasciar scorrere ad occhi chiusi.
Entrambi i brani prevedono più movimenti, con le cesure appena accennate, a sottolinearne la continuità.
“Transatlantic” esordisce dilatata e attendista, lento moto ondoso che separa continenti mentre segna la rotta e guida il viaggio; gli echi sono ambient, sottilmente psych (quasi i Bark Psychosis), con la tromba a definire un lieve crescendo che cede il passo alle chitarre e ad un drumming free, prodromo ad una congesta saturazione placata dal pianoforte. Ripreso un cammino più lineare, con bel contrappunto di sax, la traccia introduce una parentesi di fiati, chitarra acustica e basso veemente, prima di affrontare un tenue diminuendo guidato dai violini, risolto a sua volta in un brillante finale per chitarra acustica, pianoforte e tromba, memore di certe atmosfere del Pat Metheny meno ostico.
Fedele alla trama, con un ovattato rumore di train in the distance, “Transiberian” apre sorniona evocando il suo avventuroso tragitto verso est, introducendo in sequenza batteria, tromba, synth e basso pulito a delineare tessiture cinematografiche degne dei Ronin; il mood si fa più intimo, sfuggente, morbido a tratti, riflessivo e misurato, sia nel tema suggerito dalla tromba, sia nel break affidato ai ricami del violoncello, a braccetto con un pianoforte suadente e jazzato. E’ il preludio alla parte centrale, un movimento aspro e spigoloso, con la batteria che mima il treno ed una indocile elettrica distorta a creare scenari cupi ed incombenti, in un ingorgo sempre più incalzante e frenetico.
Fiati addolciti ed archi profondi su un registro plumbeo ed afflitto aprono infine ad un tema del pianoforte che conduce per mano la suite fino alla chiusura, cullata dai violini su un tappeto di note spoglie e desolate: è il suggello ad un lavoro di prodigiosa intensità, elegante, suggestivo e rarefatto, un cortometraggio senza immagini capace di insinuarsi tra i pensieri, musica inafferrabile che fluttua in totale libertà verso la prossima, misteriosa destinazione. (Manuel Maverna)