MONDO BOBO "L'elefante nella stanza"
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Che non fosse una passeggiata, lo si era capito fin troppo bene da quell’esordio ispido e granitico che fu “Con gentilezza”, biglietto da visita più che esplicito datato 2023. Ruvido e indocile, cupo e graffiante, segnava l’esordio del livornese Paolo Benedetti - musicista e autore di ultraventennale esperienza in un ben protetto e variegato milieu indie nostrano – sotto il moniker Mondo BoBo.
A due anni di distanza dal fragoroso, spinoso, urticante debutto, Benedetti torna a martellare con le dieci nuove tracce de “L’elefante nella stanza”, su etichetta Orangle Records: quarantuno minuti tesi e bruschi, memori delle passate gesta, impregnati della medesima riflessività densa, colta, profonda e scomoda che dava forma e significato a quel piccolo prodigio di arte varia, stretto tra l’acume del messaggio e la virulenza dei modi.
Parole pesanti e temi ostici, denuncia sociale e autoanalisi, speranza e ostilità fungono da leitmotiv di una narrazione fosca, plumbea a tratti, supportata da una musicalità altrettanto complessa, aspra e spigolosa, pressoché priva di concessioni alla platea: il clima generale è opprimente, l’atmosfera caliginosa, il mood affatto conciliante. Sonda ambiti e contenuti alti, indagando il rapporto tra scienza e potere mentre cita il Galileo di Brecht in “Inquiete”, sbriciolando sentimenti assortiti nell’ingorgo elettrico di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, ispirata ai racconti di Carver, asciutta summa di contrasti, tensioni, piccoli fallimenti, o ancora puntando lo sguardo oltre la siepe nell’esistenzialismo escatologico di “Qui, Ora”, con testo tratto da “La Rocca” di Eliot ed incedere ovattato, dolente, afflitto.
Sparsi ovunque come sale sulle ferite, trucchi e magheggi di ogni sorta ravvivano il canone in fogge cangianti: dall’eco grunge di “Rimuginio”, opener strumentale con rimembranze nineties in tempo dispari, al feroce realismo di “Non torno a casa”, singhiozzante sequenza di stop-and-go con ritornello dissonante a cantare di femminicidio, l’album svela e nasconde, esita e ferisce, placandosi nella calma apparente de “Le mie parole per te”, deflagrando nell’incalzante cadenza à la Santo Niente di “Allora cosa”, toccando vertici di visionario lirismo ed inattesa intimità nell’intensa ballata acustica “Terrapia”.
In coda, parossistico crescendo spettrale e minaccioso, incombente e amaro, eppure venato di una flebile fiducia in un qualche futuro possibile, rimane – lapidario, risoluto - il testamento caparbio e tenace de “Il Tracciato”, grido ripetuto controvento nella tempesta, messaggio in bottiglia alle generazioni a venire: ma ti prometto/che non staremo in ginocchio/con le mani unite a pregare/andrebbero sprecate/per lottare per voi.
Un giuramento, un’intenzione, un presagio, chissà. (Manuel Maverna)