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BEATRICE CAMPISI  "L'ultima lucciola"
   (2025 )

“L’ultima lucciola”, uscito ad aprile 2025 per Mezzanotte ed Edizioni Underground?, rappresenta un filo di speranza che la cantautrice Beatrice Campisi, originaria di Avola (SR), ci invita a seguire… ora, dopo mezzo secolo dal brutale assassinio di Pier Paolo Pasolini e dalla pubblicazione sul Corriere della Sera del suo profetico articolo “Il vuoto di potere” (noto come “L’articolo delle lucciole”), al quale il titolo del disco s’ispira.

L’invito di Beatrice – che forse inconsapevolmente vede nel piccolo insetto luminoso e ormai raro una proiezione della propria anima – viene rivolto attraverso la sua creazione musicale, i suoi testi poetici e la sua presenza fisica di una saggia e ingenua bellezza.

La musica di questo album, il terzo disco di inediti della cantautrice siciliana dopo “Il gusto dell’ingiusto” del 2017 e “Ombre” del 2022, vanta gli originali ed equilibrati arrangiamenti realizzati da Pietro Alessandro Alosi (ex componente del duo folk-rock Pan del Diavolo) e copre una vasta area di generi musicali: folk, pop, sfumature rock messe in risalto dalla chitarra elettrica dello special guest Rosario Lo Monaco, influenze popolari siciliane…

Le poesie, invece, sono in parte raccolte nel libro omonimo interamente in italiano illustrato da Elisabetta Campisi, sorella della cantautrice, e in parte vanno a costituire i testi degli otto brani che compongono il disco, tra i quali quattro sono in dialetto siciliano.

Fin dal primo ascolto, nell’intero album ci colpisce la voce limpida e naturale di Beatrice, con una forte carica femminile. Le fa da armoniosa cornice l’accompagnamento strumentale, che coinvolge tanti musicisti e in cui gli “effetti speciali” elettronici e digitali sono ridotti al minimo indispensabile.

La batteria e le percussioni suonate da Andrea Pisati sono una presenza costante e fondamentale e vengono completate dal tamburo di Beatrice Campisi stessa, che nei brani “Elanbeco”, “Zingarò” e “Vanniata” imprime una potente nota folcloristica, danzante e catartica.

Riccardo Maccabruni porta un contributo polistrumentale, nel quale si distinguono il pianoforte, la chitarra classica, la fisarmonica e l’organo. Altri interventi – oltre alla già menzionata chitarra elettrica di Rosario Lo Monaco – sono quelli di Elisabetta Campisi al basso e ai cori, di Laura Bagnis alla ghironda e di Pietro Alessandro Alosi alla chitarra acustica.

Diplomata in canto, teatro e pianoforte presso il conservatorio “Vincenzo Bellini” di Catania e laureata in Filologia Classica presso l’Università di Pavia (città in cui attualmente vive), Beatrice Campisi si è formata artisticamente e umanamente per mezzo di diverse esperienze: il master in teatro-danza con Dario La Ferla, il campus formativo presso il CET di Mogol, prestigiose collaborazioni (con Claudio Lolli, Jono Manson, Alosi, Francesca Incudine), la partecipazione a numerosi progetti (come il video-progetto di cover d’autore “Jukebox” o il triplo CD “Shaida-Tracce in libertà”) e a importanti manifestazioni culturali, il premio Siae “Sillumina” come opera prima, un tour nazionale che ha fatto tappa anche in Germania e al festival parigino “Canzoni&parole”, nonché il lavoro come docente di Italiano a tempo indeterminato presso CPIA di Milano, dove da diversi anni insegna a giovani e ad adulti stranieri, anche in ambito carcerario.

Dopo aver “girato il mondo” attraverso la moltitudine di eventi e attività che l’hanno vista partecipe e in cui ha potuto raccogliere delle storie di vita di tante persone di varie nazionalità e provenienze sociali, Beatrice ha intensificato l’impegno artistico volto a mantenere vive le proprie radici, le uniche in grado di fornire il nutrimento necessario per crescere e per interagire efficacemente con altri popoli e con culture diverse dalla propria.

C’è sempre stato un forte legame simbolico tra le radici degli alberi e le origini dei popoli nelle rispettive terre di appartenenza e da sempre nell’immaginario collettivo l’albero è metafora della famiglia. Così, il primo brano presente sul disco “L’ultima lucciola” – uscito inizialmente come singolo con un suggestivo video realizzato dallo studio fotografico Lù Magarò di Pavia – ha come protagonista Elanbeco, un ulivo secolare nato e cresciuto ad Avola il cui nome raccoglie in sé le iniziali dei nomi della famiglia di Beatrice.

Nel testo della canzone, l’ulivo Elanbeco appare come testimone della storia di Avola, che ha potuto vedere “lu tempu di li Borboni”, l’arrivo dei garibaldini, “gli inglesi vinuti ro mari”, la strage dei braccianti del 2 dicembre 1968…

Ma la natura, pur messa a rischio dall’uomo, resta sempre viva e implacabile, fonte di saggezza per l’essere umano: nel ritornello, Beatrice si rivolge all’ulivo dicendo che “Garibaldi e l’americani/ a l’occhi toi son tutti uguali”, per poi riferirsi anche a “lu focu di la muntagna” (metafora per le eruzioni dell’Etna), che “quannu ci pigghia,/ nun capisci se è casa o se è frasca,/ chiddu c’attrova, iddu su mangia” (“quando vuole,/ non capisce se è casa o se è sterpaglia,/ quello che trova, lui se lo mangia”).

Il brano si conclude con l’accenno a una filastrocca tradizionale siciliana (“E sutta o peri ra rosamarina/ c’è Gisuzzu ca simina…”) recitata sul ritmo di una tarantella; la tarantella che, oltre a essere una danza caratteristica dell’Italia Meridionale, agli occhi del pubblico estero assume anche un forte significato nazionale.

Con molta probabilità, il far conoscere al mondo le proprie tradizioni popolari accresce il senso di unità tra i popoli attraverso la scoperta delle radici culturali comuni: per esempio, sentendo il testo di “Elanbeco”, l’ascoltatore di origine romena non può fare a meno di ricordarsi che il proprio popolo usa dire “codru-i frate cu românul” (“il bosco secolare è fratello del romeno”), mentre a livello linguistico l’espressione siciliana “scutulari l’alivi” (“raccogliere le olive”) trova corrispondente fonetico nella parola romena “scuturare”, che può significare anche lo sbattimento di un albero per far cadere la frutta.

Anche la tradizione secolare dei venditori ambulanti che gridano per le strade i nomi delle merci – altro che spot pubblicitari! – è diffusa in diversi Paesi, soprattutto nell’area balcanica. In Sicilia tale tradizione si chiama “Vanniata” e nel brano conclusivo dell’album “L’ultima lucciola”, Beatrice la evoca con grande maestria e dedizione per mezzo di un recitativo corale e di un breve racconto della “dduminaria” per la festa di San Giuseppe, accompagnando la propria voce a colpi di tamburo tradizionale. Una voce, un tamburo, un minimo di mixaggio digitale e tantissima emozione!

Più elaborata invece è la canzone intitolata “Zingarò”, frutto dell’impegno di Beatrice nella ricerca e nello studio di diversi stili e generi espressivi. Cantato in lingua italiana, il brano è dedicato ai popoli romaní e alla loro tradizionale libertà di conservare il proprio modo di vivere, che però oggigiorno hanno, come tutti noi, “il futuro annodato” e “al collo un filo ormai spezzato”…

Ascoltando “Zingarò”, in pochi minuti l’immaginazione attraversa diversi mondi musicali: la chanson francese che ricorda lo stile di Edith Piaf, la ciarda ungherese, motivi balcanici, jazz afroamericano, tutti quanti assemblati in maniera armoniosa e naturale, con dei ritmi che invogliano a ballare sotto il cielo stellato.

E come i nomadi, tutti abbiamo il dovere di percorrere il lungo cammino della vita, guidati dall’immagine di un faro che lampeggia in lontananza e puntando a una meta sempre più vicina, come lo è Finisterre per chi si accinge a compiere il Cammino di Santiago. È di questo che Beatrice ci parla in “Sogno blu”, brano che per la sua impostazione musicale (soprattutto vocale) ricorda forse la musica dei gruppi nord-europei del secolo scorso, come The Cranberries.

La cantautrice invita a fare “un tuffo dentro un sogno blu” marino – metafora della rinascita, in quanto l’acqua significa genesi e purificazione – e a sfidare il peso dello zaino carico di “storie non dette”, continuando a cantare “Adelante!”.

L’acqua del mare è un’illusione di rinascita anche per i tanti popoli costretti ad affrontare l’arida strada della migrazione, “in mare aperto a Tripoli,/ sognando di essere liberi”. La canzone “Tripoli” – anch’essa uscita in anticipo come singolo estratto e accompagnata da un video a cura di Lù Magarò – raccoglie in sé le impressioni di Beatrice in seguito ai racconti dei giovani stranieri a cui insegna.

La Libia, stato ormai diventato un luogo del traffico di esseri umani, dove “la guerra infuria nei vicoli”, vede passare tante persone mosse dalla paura e dalla speranza di trovare un mondo migliore “oltre questi limiti”. Il mare “culla, ma ti lascia i lividi”, purtroppo spesso dei “lividi” fatali, e in questo brano i suoni graffianti della chitarra elettrica evocano la sensazione di rischio e di insicurezza provata dai migranti.

Interessante nel testo di “Tripoli” è il verso “ma qui non è, non è festa più”, in cui il significato della parola “qui” è interpretabile: si potrebbe riferire alla città di Tripoli, ma può essere intesa anche come “qui, nel mondo occidentale” o “qui, in Europa”, dove la canzone è stata creata. Infatti, sul disco c’è anche un brano – cantato in dialetto siciliano, forse per via del bisogno di comunicare in modo diretto e familiare – intitolato “Europa”, in cui Beatrice sembra che rimproveri amorevolmente la “mamma” Europa per aver smarrito la propria identità storica, permettendo ai suoi figli di alimentare le guerre.

Mentre dappertutto “senti parrari li genti cco cuteddu nte renti,/ surdi a li pinseri e ai duluri di l’autri” (“senti parlare le genti, col coltello nei denti,/ sorde ai pensieri e ai dolori altrui”), con amarezza la cantautrice supplica: “Europa, ferma stu ciumi ‘i pazzia!” (“Europa, ferma questo fiume di pazzia!”)… e quasi ironicamente chiama l’Europa “donna di pace”, chiedendole di non scordarsi chi è.

Il ritornello riprende una filastrocca siciliana per bambini, riferendosi all’assenza della madre Europa (“Puti putè, a mamma nun c’è/ E unn’è? E unn’è?”) ed è significativa la serie di verbi “nasci, crisci, curri e mori” inserita tra le ultime due ripetizioni del ritornello, espressione della saggia rassegnazione di fronte a una vita che scorre da sé, noncurante della volontà umana.

Gli errori del periodo storico in cui viviamo lasciano impronte soprattutto nelle vite dei giovani, per i quali è sempre più difficile orientarsi, riconoscersi nel proprio corpo e socializzare, fino al sentirsi dei “pezzi di un mondo sbagliato”. Ma tali difficoltà possono essere affrontate attraverso l’incontro tra anime affini, sensibili, che insieme tracciano delle “mappe stellari” per distanziarsi dalle proprie fragilità, come cantato da Beatrice nel brano intitolato appunto “Mappe stellari”.

Il video che lo accompagna commuove per via della sua realistica semplicità, mentre a livello musicale rimane particolarmente impresso nella memoria l’intervento del pianoforte intorno al minuto 2:25/2:30, in cui lo strumento riprende la linea melodica introdotta dalla voce… come se in qualche modo riprendesse il ritmo delle sillabe della parola-chiave “fragilità”.

Il pianoforte e la chitarra classica ricamano un grazioso accompagnamento anche nella canzone “Lassimi accussì”, un brano molto intimo e personale, a differenza degli altri sette, che accennano più che altro a problematiche sociali, culturali e collettive. Il testo in dialetto si riferisce all’atteggiamento contemplativo, a quel “lasciarsi” che permette di non farsi schiacciare da “u pisu ca ni grava” (“il peso che grava su di noi”) nella vita quotidiana veloce e prestazionale.

C’è anche l’idea della resistenza alle influenze di coloro che vogliono manipolare e sottomettere il pensiero altrui, del non aver paura “di vulari ‘n facci o ventu” (“di volare contro vento”) ed è interessante e misteriosa la personificazione del tempo che “si l’ammucca/ chista vita china ‘i ruppa” (“si mangia/ questa vita piena di nodi”).

Buon ascolto e buona riflessione, mentre si continua a sperare che – tra mappe stellari e “tanti faviddi nta l’occhi” – piano piano comincino a tornare anche le lucciole. (Magda Vasilescu)