recensioni dischi
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BLESSED CHILD OPERA  "Red flags"
   (2025 )

Come sempre, questione di gusti.

Di stati d’animo passeggeri, di umori cangianti, di chiaroscuri occasionali: o – invece, e più semplicemente – di indole, che fallace e transitoria non è mai. C’è un piccolo mondo sfocato - fatto di sentimenti pesanti e di buio oltre la siepe, una palette di grigi e neri su tela strappata - a definire l’arte elegante e crepuscolare di Paolo Messere, nume tutelare di una nicchia ben protetta al confine tra post-punk garbato ed austero dark-folk.

Come sempre, questione di gusti.

Respingere o attrarre: dipende dalla disponibilità all’introspezione, da quanto disincantato sia lo sguardo che scruta dentro le umane miserie, celate nei più reconditi recessi della psiche, perse nei labirinti che custodiscono segreti inconfessabili.

Amare dischi così risponde ad un impulso puramente soggettivo: quanto sei incline ad accettare il confronto con spettri, fallimenti, perdite, passioni macerate, ferite aperte? Quanto lontano potrai spingerti nell’incessante lotta col te stesso che ti osserva nello specchio? Quanta forza avrai per aggrapparti a qualcosa e - forse – rialzarti?

Nono capitolo nella ultraventennale, mai discendente parabola del progetto Blessed Child Opera, “Red Flags”, su etichetta Seahorse Recordings, reca in dote una volta ancora la sua opulenta cornucopia di contrizione, un esistenzialismo profondo e meditativo declinato in dodici tracce che rovistano in un dedalo di emozioni intrecciate e sfide impervie, alla ricerca di una soluzione all’illeggibile rebus quotidiano.

Incrollabilmente coerente rispetto al passato, il mood prescelto per veicolare questi quarantacinque minuti di afflitta melanconia è dimesso e affranto, circondato da un’aura sottilmente depressa, imbevuto di una palpabile desolazione che affascina e contagia, permeando ogni episodio di una soave mestizia, ingrediente irrinunciabile in un profluvio di tonalità minori e visioni al rallentatore.

Dall’intro strumentale di “Love codex” alla chiusura morbida e sfuggente di “A faint memory”, “Red flags” esplora soluzioni e sperimenta con grazia: è raffinato, misurato, compassato nel suo incedere riflessivo, rinuncia ad inessenziali, brusche, improvvide divagazioni, prediligendo un approccio tenue ed avvolgente, esaltato dalla vocalità variegata ed incisiva di Messere, capace di spaziare con nonchalance tra registri interpretativi mutevoli.

Melodie ampie, mai pompose (maestose sia “Capital Punishment” – quasi i Depeche Mode – sia il singolo “Oblivion”), un’elettronica docile al servizio di sonorità levigate, numerose incursioni in territori di confine (le suggestioni mediorientali di “Punitive Silence”, “Trembling Stars” e “You can relate to joy without feeling guilty”) e piccole scosse inattese (il break imperioso di “Old Stains”, il passo battente di “Cursed the day”, nervosa ed incalzante sotto l’egida di un canto parlato sinistro e sommesso) segnano il percorso di un album compatto, intenso, oscuro.

Da qualche parte tra i Cure e David Eugene Edwards, a metà strada tra il cuore della notte ed una luce solo immaginata, un magma inquieto ribolle sordo, col suo messaggio fieramente incombente, foriero di infausti presagi, di remote speranze, di fugaci spiragli di redenzione. (Manuel Maverna)