PALE BLUE DOT "(H)eart(h)"
(2025 )
Voce con riverbero a gogò, chitarre distorte con chorus che suonano molti accordi di settima maggiore, temi cosmici. Questi sono gli ingredienti essenziali della musica dei Pale Blue Dot, che nell'album “(H)eart(h)” esprimono la loro ispirazione all'attività di Carl Sagan. Il “Pale Blue Dot”, tradotto in “lieve puntino azzurro”, si riferisce a quel famoso scatto fotografico del satellite Voyager, che mostrava la Terra vista da oltre Nettuno, a 6 miliardi di chilometri da noi.
Questa immagine fa sempre scaturire il pensiero di quanto siamo piccoli nell'universo. Nonostante siamo 8 miliardi di esseri umani, assieme alla più vasta fauna e flora, di fronte al cosmo proviamo una profonda solitudine. Questa solitudine si traduce nel sound della band, che sembra suonare sempre da lontano, tante sono le stratificazioni dei riverberi.
“(H)eart(h)” contiene sette canzoni, ma sembrano sette capitoli di un'unica mega canzone, perché gli elementi formali sono costanti. “Green Fairy Tale” spicca tra le altre, per le sequenze di accordi e un crescendo dinamico. Per il resto, la dinamica è sacrificata sull'altare della volontà di essere atmosferici.
Questo può creare difficoltà a un primo ascolto, ma l'album si può apprezzare di più se non si prende come serie di canzoni separate ma come un unico viaggio nello spazio, tra riflessioni esistenziali (“Destruction or Resurrection”) e suggestioni cosmiche (“Star Cloud”). La solitudine regna sovrana (“Alone”), tenendo sempre a mente il puntino azzurro sul quale stiamo vagando, ma nell'oscurità di “For The Beauty Of Miranda” (accompagnata da un altrettanto oscuro videoclip simmetrico), le parole indicano che si sta cercando di scrutare un abisso metafisico: “There's a crack in everything that's real”.
Questo verso è forse la chiave per interpretare correttamente delle scelte stilistiche così “monotone”. Creando un suono crepuscolare e “piovoso” (quasi à la The Cure), i Pale Blue Dot ipnotizzano l'ascoltatore, riscaldato dall'elettricità del rock, senza però invitarlo a ballare: la mistura di riverberi e di sound “liquefatto” cercano di delineare una zona grigia, liminale, nella quale notare questa crepa nella percezione del reale. Non è immediata la cosa, ma prestandoci attenzione, l'introspezione della band può diventare l'introspezione di chi la ascolta. (Gilberto Ongaro)