MINOH "Where it bleeds"
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Ci ho messo un po’ a capire questo disco, che mi ha disorientato parecchio mentre stentavo a stabilire con precisione di cosa si trattasse.
Ad un certo punto, ho trovato la chiave: semplicemente, l’ho lasciato scorrere così com’è, senza chiedergli troppo, senza chiedermi troppo. Cosa sia esattamente, rimane un mistero: all’incirca, punk sui generis in salsa electro, ma forse no. E – in fondo – poco importa, perché funziona, eccome.
Minoh sono un duo, formato da Guido, tedesco, e Jamin, coreana. Sette anni di demotape e fatiche varie per approdare finalmente al sospirato debutto full-length su etichetta Dackelton Records: nelle nove tracce di “Where it bleeds”, esordio compatto, fulmineo, folgorante, confluisce di tutto un po’, con un fervore che sfiora il paradosso, vista la lunga gestazione. In una tiratissima mezzora, veemente e frenetica, si agitano e e convivono influenze e idee, riferimenti e rielaborazioni, il pre e il post a braccetto senza fronzoli né cervellotiche derive di sorta.
Apre “Lick Me Where It Bleeds”, ruvida e brusca nei suoni e nel canto, biglietto da visita che promette e mantiene: riff, drumming forsennato, basso pulsante, staccato di chitarra albiniano, voce di Jamin che porta a spasso tre minuti di spigoli e asperità assortite. E’ il preludio all’up-tempo di “Million Miles”, trascinante cavalcata post-punk à la Whispering Sons con tanto di coretti, vocalizzi e ganci sontuosi; al passo meticcio di “Mute”, che innesta sprazzi di elettronica memori dei primi Bloc Party su un insistito arpeggio di chitarra; all’intreccio di una “Withered Tree” dal morbido abbrivio disco old-style, presto incanalato in un pop roboante à la Indochine.
L’album è un saliscendi emotivo talvolta convulso, altrove più docile, condito da variazioni funzionali al risultato: il basso incisivo di “Painful reminder”, con voce di Guido, introduce un incalzante tema di matrice Eighties, bella melodia e ritornello efficace; “Midlife Crisis” procede spedita ricordando gli Alphaville e fungendo da cesura per il trittico finale, crescendo congesto e saturo che segna il confine di un lavoro mai avaro di sorprese. “Waves” è bruciante ed aggressiva, con reiterate scosse ed accelerazioni à la Hole; “Look Inside” è battente ed armoniosa, con pregevoli contrappunti del synth, imperiosa performance di Jamin e sonorità robuste, piene, dense, affini a certi White Lung; “The Witness” chiude dritta e asciutta su un chorus sontuoso, suggellando nel migliore dei modi un album sì levigato, ma istintivo ed urgente, incline all’insistita ricerca di un provvido connubio tra impetuosa foga ed accessibilità. (Manuel Maverna)