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A/LPACA  "Laughter"
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Ora: io gli a/lpaca me li ricordavo bene, ma me li ricordavo un po’ diversi.

Per sicurezza, ho riascoltato “Make it better”, debutto che quattro anni fa mi mandò in estasi con le sue cavalcate motorik, una sarabanda di krautrock in purezza come di rado se ne sente alle nostre latitudini.

Allora ho ricliccato play su questo “Laughter”, trentuno minuti nuovi di zecca su etichetta Dischi Sotterranei/Sulatron/Soir Grapes, ritorno in grande stile del quartetto mantovano che ieri m’illuse ed oggi mi sorprende, perché sì, la sostanza è – in parte - ancora quella dell’esordio, ma qualcosa è cambiato, eccome.

A fare la differenza sono un paio di cosette.

In primis, il mood generale: meno derivativo – come dicono quelli bravi – e più personale, quasi fosse una rivisitazione del verbo primigenio in salsa psych. Sonorità diverse, spirito diverso, intento diverso. Il gioco funziona, il risultato pure: ne scaturisce un lavoro che oscilla tra la passata compattezza - solida, spedita, satura – ed una inedita inclinazione a sporcare la materia, sfregiandola con gusto e ridefinendone le forme.

In secondo luogo, le canzoni: che confondono le acque, depistano, deviano dalla retta via, mimando sì le recenti glorie, ma sfoggiando ben presto un lato di sé rimasto fin qui in penombra, intimo e profondamente inquieto.

Dalla breve e sinistra opener “Evil Pawn” alla cadenza marziale à la Black Rebel Motorcycle Club di “The Confident Laughter”, dal caotico ingorgo di “An Encounter” - con accenni noise, basso pulsante e quel verso ripetuto su un algido contrappunto del synth che ricorda i Kraftwerk – alla bordata sovraesposta di “Laughter, Us Us”, le prime quattro tracce si muovono nel solco già tracciato, conservando intatta l’aura sottilmente malevola che ammantava “Make it better”.

E’ proprio nei tre minuti abbondanti di “Laughter, Us Us” che va in scena l’intero campionario di trucchi e magheggi di cui la band è maestra: l’effetto è ipnotico, l’incedere martellante, la voce immancabilmente strapazzata. Filtrato, distorto, lontano, nascosto sotto una coltre rimbombante, il canto assume sembianze robotiche e maligne, in un clima mai accomodante né accondiscendente, invero piuttosto plumbeo e minaccioso.

Dalla cesura-lampo di “Bianca’s Videotape”, il clima muta repentinamente, in modo irreversibile: indietro non si torna, e allora giù i giri, spazio all’elettronica, salgano alla ribalta nuove vibrazioni, ben venga un differente approccio, più riflessivo e pacato, anche se - forse - soltanto in apparenza. Perché va bene l’elettronica, ma quella apparecchiata nel passo metronomico ed ossessivo di “Balance” è fosca ed infida, il divertissement sibillino di “Brano Fantuzzi” è tutt’altro che conciliante, e la trama melodiosa di “Kyrie” si lascia alle spalle un senso di sfuggente incompiutezza.

Lì nel mezzo, “Empty Chairs”, psicotica e sferzante, riprecipita agli inferi sulle ali di un beat frammentato e nevrotico, ma è l’ultimo trompe-l’-oreille che divide dalla chiusura, nuovamente placata in un’oasi di pace effimera: prima l’incalzare vagamente allucinato à la Dan Sartain di “Who Is In Love Daddy?”, poi il commiato di una “Don’t Talk” che riecheggia atmosfere memori dei Joy Division, riportano tutto a casa, con le ultime note a risuonare – maestose ed afflitte - in un fade-out evocativo, avvolgente, carico di promesse, preludio a chissà quale altra futura sfida, scommessa, scoperta. (Manuel Maverna)