recensioni dischi
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THE YOUNG GODS  "Appear disappear"
   (2025 )

E comunque, gli Young Gods non si discutono.

Esistono da sempre, nascosti alle masse, celati e riveriti, in una nicchia ben protetta, all’ombra dell’intuizione che ne decretò l’unicità oramai quarant’anni fa, e sottolineo: quaranta.

Gli Young Gods sono uno di quei gruppi che hanno fatto la storia, sebbene in pochi lo sappiano e/o lo ammettano e/o se ne siano anche semplicemente resi conto.

Trio svizzero senza chitarra, che la chitarra suggestivamente mimava grazie ad una nutrita palette di samples, gli Young Gods degli albori nacquero discepoli di Einstürzende Neubauten e Swans, dediti ad una declinazione del verbo industrial particolarmente incline a rumoreggiare; la loro era un’interpretazione focosa ma ragionata, assai personale, che scolpiva un sound destinato a divenire, col tempo, discretamente iconico e seminale, marchio di fabbrica sì, ma anche fonte di ispirazione per uno stuolo di artisti di disparata collocazione, da Trent Reznor ai Chemical Brothers o ai Ministry, fino – a detta di The Edge – agli U2 di “Achtung Baby”.

Guru e nume tutelare della sigla è tuttora Franz Treichler, il quale, giova ricordarlo, nasce proprio chitarrista con studi classici al Conservatorio, prima di debuttare come frontman di svariate band di ispirazione punk sul finire degli anni Settanta; accanto al vate, il fido co-fondatore Cesare Pizzi, rientrato in formazione dopo iato ultraventennale, e il batterista Bernard Trontin, arruolato nel 1997, all’indomani delle sessions di “Heaven Deconstruction”, lavoro avanguardistico interamente ascrivibile a Treichler.

Ora, a sei anni da “Data Mirage Tangram”, ultimo e complesso capitolo della saga, l’immarcescibile trio si ripresenta in grande spolvero con “Appear Disappear”, nono episodio (senza contare i quattro album strumentali di cover e sperimentazione varia) di una discografia parca e distillata con cura, dieci tracce inedite per Two Gentlemen, giovane label indipendente elvetica: introdotti dalle spigolose asperità della title-track, vanno in scena quarantaquattro minuti intensi e vibranti, memori di sonorità collaudate e riconoscibili, esplorate nell’arco di una carriera che non ha mai conosciuto flessioni né ammiccamenti di comodo alle mode imperanti.

Nella consueta alternanza di inglese e francese adottata da “Only Heaven” in poi, contrasto che ammalia e confonde, l’album dispensa l’abituale, indefinibile, continua sottrazione di appigli e punti di riferimento, tra rallentamenti estatici e repentine scariche abrasive (“Tu en ami du temps”, quasi l’Alexandre Varlet dei tempi d’oro), contorsioni improvvise e svolte inattese, pause ed impennate, scatti ed esitazioni (“Blue Me Away”), movimenti infidi e sviluppi imprevedibili, al crocevia tra una concezione psych sui generis (“Blackwater”, tesa ed incombente) , gli ultimi rigurgiti dell’acidità industrial che fu, sporadiche rimembranze filo-rock di Eiffel e Noir Desir (“Mes yeux de tous”) e ripetute incursioni in territori di confine (l’accelerazione in chiusura di “Shine that Drone”, il beat dissonante di “Off the Radar”, il passo insinuante e sornione di “Hey Amour”).

In un milieu che è padre di molti e figlio di pochi, l’eco dei fasti passati giunge ovattata e conforme ai tempi, il sound è più misurato, il tono complessivo in parte edulcorato, ma l’anima non muore, fiera e salda al comando. Gli ingredienti rimangono gli stessi, e poco importa: gli Young Gods la storia l’hanno già fatta, e comunque – ribadisco - non si discutono.



Post scriptum: Pilsen, Repubblica Ceca

A partire dal 1993 e fino al 1998, coi miei genitori ed alcuni amici di famiglia trascorsi quattro estati in vacanza in Cechia, inclusa qualche puntata in Polonia, Ungheria, Slovacchia. La Cechia, che si era separata dalla Slovacchia proprio ad inizio 1993, era la nostra preferita, e tuttora la porto nel cuore. Un’altra cosa che da una vita porto nel cuore sono i dischi, ai quali fin da bambino – sic! - non so resistere e la cui graduale scomparsa è fonte di tristezza e nostalgia.

Nessun luogo, fosse a un chilometro da casa o in un Paese straniero, si salvava dalla mia bramosia: non appena vedevo un negozio di dischi, piccolo o grande che fosse, ben fornito o scarno, attraente o scalcinato, mi sentivo calamitare all’interno. Annusavo l’aria, toccavo le copertine, mi muovevo con fare quasi maniacale tra gli scaffali, alla ricerca del colpo grosso, dell’occasionissima, di chissà cosa. Compravo prevalentemente musicassette (il lettore cd lo avevo, ma il mercato dei compact disc era ancora agli inizi) e vinili, supporti che amavo con eguale trasporto: certo, gli lp avevano un fascino speciale, la copertina era già di per sé un plus, specialmente se accompagnata (ma non potevi saperlo se l’album era sigillato: bella sorpresa o cocente delusione, quindi) da in sleeve coi testi e/o con foto.

Ecco, girando dalle parti del centro di Pilsen, Repubblica Ceca, un giorno qualsiasi nell’agosto del 1995, vidi con la coda dell’occhio un negozio che esponeva in vetrina 33 giri ed altre delizie. All’interno, era piuttosto spazioso ed offriva una varietà decisamente soddisfacente di prodotti. Lasciai famiglia ed amici a visitare i dintorni con il mio usuale “do un’occhiata, mi fermo un attimo”, menzogna che equivaleva ad una sosta di non meno di quaranta minuti. Ben presto trovai una piccola sezione con una scritta in ceco, associata ad una freccia che indicava ribassi: misi mano al mio dizionarietto tascabile, che mi confermò quello che avevo intuito, ossia che si trattava di album a prezzi scontati. Iniziai a spulciare con appassionata libidine: avrei sicuramente acquistato qualcosa, era così che andava sempre a finire, dovunque. Andarsene a mani vuote? Non fosse mai.

Mezzora più tardi, uscii dal negozio con due lp, pagati entrambi una cifra irrisoria, stampigliata su un piccolo adesivo appiccicato alla cover. Tipo: 40 corone l’uno, l’equivalente di circa tremila lire, poco più di un euro e mezzo di oggi.

Internet non era un fattore, le informazioni si raccoglievano leggendo la stampa specializzata o col passaparola: di questa o quella band potevi ignorare tutto o quasi, perfino l’esistenza stessa. A volte, compravo dischi pressoché alla cieca, perché mi piaceva la copertina, ad esempio, o per qualche dettaglio che mi aveva colpito, o perché i titoli suggerivano qualcosa, o ancora perché la foto del cantante mi intrigava.

Lì in quel negozio di Pilsen mi ero semplicemente fidato di un particolare, di un’inezia, di un nonnulla, di un’intuizione alla c(i)eca, ed ero contento di essermi accaparrato le mie prede per quella somma vantaggiosa. Non sapevo – e lo capii anni dopo – che entrambi gli lp che avevo tra le mani erano dischi di una certa importanza, anzi: di più.

Il primo era “Front by Front” dei Front 242, disco tuttora considerato imprescindibile nel campo dell’industrial tutta. Il secondo, che mi aveva attratto per la copertina color rosso fuoco/sangue e per i titoli sul retro, tutti in francese, il primo dei quali era un lugubre “La fille de la mort”, riportava sul davanti il nome della band, che era The Young Gods, mentre il titolo dell’album era leggibile solo sul bordino laterale. Era “L’eau rouge”, da cui il colore della copertina, conclusi.

Dal poco che potevo intuire, pensavo potesse trattarsi di metal, perché la band non l’avevo mai sentita nominare e brancolavo nel buio. Sbagliavo, ma allora non sapevo neanche questo.

Per ascoltare i due lp dovetti attendere ovviamente il rientro in Italia, dove il mio impianto stereo li attendeva con fervore.

I Front 242 non mi impressionarono.

Gli Young Gods sì, e fu a partire dai primi venti secondi del primo brano che conclusi che costoro avevano qualcosa da dire e – soprattutto – che avevano un modo di dirlo inusuale, non convenzionale, disallineato, non facilmente riconducibile a qualcosa che conoscevo. Li amo da allora, per puro caso, grazie ad un negozio di Pilsen e a chi decise che quella gemma dovesse finire nella casa di un ventiquattrenne italiano per la modica cifra di 40 corone.

Da allora, in casa mia, gli Young Gods non si discutono. (Manuel Maverna)