SMOOTH ELEVATOR "Moving target"
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Dissolti in uno snodo polveroso e instabile al crocevia tra tutto e niente, sessantasei minuti di musica inafferrabile, ondivaga ed apolide - impossibile da incasellare, ardua da circoscrivere, ancor più da definire – languiscono in cangiante, mutevole, caracollante equilibrio.
Elaborato ed elegante pastiche astratto, “Moving Target” segna l’esordio per Losen Records del trio Smooth Elevator, ossia Will Bernard (chitarra), Danilo Gallo (basso) e Gioele Pagliaccia (batteria), illustri strumentisti di lungo corso ed antica frequentazione, impegnati in un lavoro sfaccettato e colto, raffinato compendio d’arte varia ed urgenza creativa.
Nidificato in un milieu di confine, mosso da un afflato sottilmente elitario, contrassegnato da una scrittura libera, estrosa, vibrante, l’album offre tredici tracce in bilico sul sottilissimo crinale che separa approccio intellettuale e contenuta accessibilità.
Non abbastanza free per ascriverla al jazz tout court, non sufficientemente leggibile per derubricarla a mero post-qualcosa, la proposta sghemba dei tre consumati marpioni gigioneggia lungo i cunicoli – invero ben poco rischiarati – di un’opera complessa, tortuosa, sfuggente a tratti, eppure accattivante ed ammaliante nella sua ostinata, insistita profferta di musica off remiscelata.
Ostico quando vuole, affabile al bisogno, spesso spinoso, di rado pienamente conciliante, l’album oscilla con navigata nonchalance - un po’ John Abercrombie e un po’ Tortoise, un po’ Bill Frisell e un po’ For Carnation – tra le movenze insinuanti di “Slow Mover”, agitata dai percorsi flessuosi del basso, e le afflitte atmosfere al rallentatore di “For Erik”, indulgendo ad un tenue, estatico romanticismo nell’aria soffusa di “Leda”, concedendosi agli spigoli della sezione ritmica in “Miguel’s Panda”, sovente conservando intatto un mood vagamente buio ed incombente, solo a tratti rasserenato, raramente pacificato.
In un tourbillon di imprevedibili divagazioni, piccole scosse, sviluppi inattesi e sorprendenti digressioni, lontane suggestioni post-rock si affacciano timidamente a scuotere la coda di “Lullaby of Rattlesnakes”, echi del Pat Metheny più morbido e trasognato accarezzano “P.M. Gone”, sporadiche incursioni in territori psych agitano sia l’incedere nervoso di “Urban Modesty”, sia l’inquieto fluire ipnotico di “Civico 0 – In fondo alla strada”.
Nel finale, gli otto minuti e mezzo di “Walking through the suburbs of Rome late at night” si districano allucinati in un guado limaccioso, ricordando sì in apertura le illusioni cinematografiche dei Ronin, ma aprendosi repentini in un ingorgo di jazz pungente e contorsioni avant à la 75 Dollar Bill, confondendo e affascinando, spiazzando l’uditorio – con garbo e misura – mentre preparano il terreno all’epilogo di “Blues for Bologna”. Che è davvero un blues alla vecchia maniera, uno slow carezzevole, soffice ma oscuro, intenso e indolente, suggello che, con immutata classe e tutto il mestiere portato in dote, cristallizza lo stato di grazia di un talentuoso ensemble di assoluta levatura. (Manuel Maverna)