KINGFISHR "Halcyon"
(0 )
Prima ancora di accingermi ad ascoltarlo, ho leggiucchiato cose qua e là in rete sul debutto lungo dei Kingfishr, trio irlandese in giro già da un po’, piuttosto noto in patria e zone limitrofe grazie ad una manciata di singoloni sparsi ad arte negli anni scorsi.
Ecco, ho letto cose buone ed altre meno e volevo dire che sono d’accordo su tutto e con tutti.
Però: a me il disco è piaciuto, e parecchio.
Cioè: è vero che Eddie Keogh, Eoghan 'McGoo' McGrath e Eoin 'Fitz' Fitzgibbon non stanno esattamente scoprendo l’acqua calda o scolpendo nella pietra – né imprimendo su vinile – chissà quale mirabilia, ma è innegabile che dentro le sedici tracce di “Halcyon”, su etichetta B-Unique, di carne al fuoco ce ne sia parecchia, anche se magari ha lo stesso sapore di qualcosa che hai già assaggiato e che ben (ri)conosci.
Il vocione di Eddie naviga, aperto e stentoreo, mixato in primo piano, su un mare calmo di ballad pacate e confortanti, di quelle con gli accordi giusti al posto giusto, coi ritornelloni ampi e morbidi, spesso prediligendo e privilegiando mid-tempo sornioni o slow bucolici deliziosamente indolenti, accoccolati su melodie dolci come miele.
Di rado i giri salgono, ad esempio nell’opener “Man on the moon”, o nell’accelerazione irresistibile di “I Cried, I Wept”, che va a planare dalle parti dei Mumford & Sons mentre azzecca tutto – ma proprio tutto – in tre minuti e mezzo facili e perfetti. Appunto, i tempi: brani concisi, mai sopra i quattro minuti, a volte sotto i tre, aiutano a non appesantire un album così corposo, che rimane invece generoso e schietto, sincero nei suoi testi accomodanti e miti, fatti di sentimenti popolari, ricordi gentili e love love love.
Niente di esagerato, niente di scomodo, niente di brusco, niente di cattivello, niente di azzardato, niente di provocatorio. E non una parola, non un suono, non un gancio, non un’idea, non uno sviluppo, non una variazione fuori posto. Quarantotto minuti che scorrono placidi, un flusso di musica buona e conciliante da lasciar andare mentre l’auto ti porta a spasso nel verde di una vallata silenziosa in una giornata di sole.
E’ musica universale, ottima per tutte le occasioni, come un tubino nero, un tailleur, un blazer o un paio di jeans. Rilassante e poco impegnativo, “Halcyon” non fa che regalare ciò che promette e che – in fondo – la gente vuole: canzoni da cantare e da ricordare, melodie da associare ad emozioni standard che tutti quanti prima o poi abbiamo provato, e che sono belle proprio perché normali, semplici, profondamente umane.
Largamente composto da singoli già editi, svaria e spazia tra il chorus maestoso di “Gloria” ed il palpitante crescendo di “Flowers-Fire” (siamo dalle parti dei Kings of Leon), tra il pathos carezzevole di “Ways to change” e l’innodico folk gaelico di “Killeagh”, ad oggi il loro singolo di maggiore risonanza, due minuti e mezzo di quelli che ti trovi a latrare a squarciagola dopo la quarta Guinness, abbracciato a degli sconosciuti in un pub.
E così, tra l’armonica toccante che punteggia “Shot in the dark” e l’inciso imperioso di “Someday”, tra qualche brano memorabile e nessuno meno che gradevole, il trio riporta tutto a casa in scioltezza, pennellando un piccolo prodigio di asciutta essenzialità, pimpante e fresco, godibile e goloso, allettante quanto basta per lasciarsi riascoltare con piacere, colonna sonora ideale del viaggio che volete, fosse anche soltanto nella vostra mente, magari sprofondati nel divano, o sdraiati su un prato a fissare il vuoto. Un vuoto placido, promettente, delizioso. (Manuel Maverna)