NERO KANE "For the love, the death and the poetry"
(2025 )
In principio, fu blues.
Era “Love in a dying world”: polveroso, inafferrabile, impalpabile. Buio e fosco.
Diverso.
Musica rarefatta, eppure tesa e vibrante, corredata di una suggestiva iconografia che rimandava ad una west coast in disguise: affatto scintillante, per nulla appariscente.
Ma già in origine, celato dalla patina opaca che ricopriva quel blues sfigurato, indolente e mesto, una greve inquietudine si agitava sottotraccia, lasciando presagire sviluppi che, puntuali, giunsero a tormentare i sonni degli adepti del culto. Al riparo di suoni essenziali, di piccola poesia minimalista, all’ombra di un synth, di una chitarra, di due voci e nulla più, quell’espressione primigenia proseguì nel suo svenevole caracollare sul ciglio cedevole dell’abisso, assumendo in “Tales of faith and lunacy” le sembianze di un cerimoniale pagano, prodromo dell’epifania che si manifestò nella perfezione – non solo formale – di “Of knowledge and revelation”. Deviando sempre più, sebbene impercettibilmente, dalle piste di sabbia degli albori, il processo di sublimazione di quelle pulsioni archetipiche toccò vette difficilmente ripetibili, chiudendo il cerchio e pervenendo ad una definizione in purezza dell’universo – tutto interiore – del suo padre/padrone.
Un vertice indiscusso, unanimemente celebrato ai quattro angoli del mondo, salutato da pubblico e critica come il capolavoro sui generis di questo cantore delle tenebre, aedo defilato e dimesso, ma ora – certamente - non più trascurabile nel panorama internazionale.
All’indomani di un tale zenith, era lecito chiedersi cosa avrebbe fatto Nero Kane, soprattutto era legittimo domandarsi se e quando avrebbe compiuto un passo di lato, rispetto all’amato sentiero battuto con costanza. Come si gestisce un picco? Come si plana dalla cima, senza farsi male?
A tre anni dall’apogeo, di nuovo su etichetta Subsound Records, ancora con la co-produzione di Matt Bordin e sempre nell’alveo del fruttuoso, inscindibile sodalizio con Samantha Stella (la cui variegata, sfaccettata, frenetica attività meriterebbe trattazione a sé), arriva “For the Love, the Death and the Poetry”, sorprendente, gradita, inattesa, timida – benché auspicabile - apertura: su altri abissi, vero, ma pur sempre un pertugio dischiuso, un’opportunità di dialogo offerta agli astanti, un messaggio in bottiglia affidato ai marosi.
Avviluppata come edera attorno all’abituale scenario, fondale nero-grigio sotto cieli tetri, aura mistica, temi decadenti, commistione di sacralità celebrata/profanata e laica devozione, cresce maestosa e fiera una musicalità più disponibile – non pacificata – declinata in nove tracce di incombente magnificenza.
Al solito, l’imponenza generata da una strumentazione così esigua è un inesplicabile prodigio di spettrale fissità, quasi una posa plastica che cela anime intrappolate nel loro incessante vagare. L’incipit è fedele alla linea, consolida il canone, replica il mantra: sono i nove minuti di “As an Angel’s Voice”, diafana preghiera che inizia laddove “Of knowledge and revelation” terminava, invocazione ai vivi e ai morti, litania che culla nel suo ventre, tra dolore e memorie, calata in un’atmosfera sinistra, come le immagini che accompagnano il cortometraggio di Samantha Stella a corredo del brano.
E poi, quasi pavida, appena accennata, la virata.
Quella stessa monumentale, tanto cara oscurità – a volte svelata, a volte nascosta, o soltanto preconizzata – si offre, immutata e reale, mai simulata, ad accenni di un passato ancora prossimo, concedendosi divagazioni verso lidi inesplorati. Cambiare, senza che nulla cambi davvero: la forma si rinnova, attrae ed affascina, affabula ed inganna, promette sì, ma continua a ferire, impietosa.
Avanti, dunque, col blues sfuggente di “My Pain Will Come Back To You”, lugubri rintocchi e slide toccante; con lo straniante senso di abbandono di “Land of Nothing”, sospinta dal crooning di Samantha verso il cul-de-sac di quell’unico accordo finale, lasciato riecheggiare per oltre un minuto, prima di essere inghiottito dalla dissolvenza; con l’arpeggio melodioso, scarno e intimo, di “Mountain of Sin”, che reca in dote perfino un accenno di ritornello.
La ricerca di linee più armoniose, che meglio definiscano il nuovo corso, è evidente: e dopo l’oceanica desolazione di “Of knowledge and revelation”, ogni carezzevole concessione è una coccola.
“The World Heedless of Our Pain”, desolata liturgia da brividi che richiama la funerea “Heron Blue” di Mark Kozelek, ricama in sette minuti un capolavoro a due voci intrecciate, con Samantha impegnata in un inedito registro vocale operistico (peraltro in italiano), lirico e ipnotico al contempo. E’ il preludio – sontuoso, imperioso - al trittico finale, con suggestioni di archi a contrappuntare sia il larghetto afflitto di “Receive My Tears” (memorabile la frase di chitarra che guida la coda), sia l’arpeggio insistito di “There Is No End”, sia – soprattutto – la chiusa palpitante ed afflitta di “Until the Light Of Heaven Comes”, introdotta da basse frequenze ed affidata alle profondità, mai così cangianti, del canto di Samantha, cui è concesso l’onore dell’epilogo, sospeso e languido, trasognato e vibrante, fino all’algido staccato di pianoforte su cui cala il sipario.
Impossibile soffermarsi sulla soglia dell’espressione musicale in sé: in “For the Love, the Death and the Poetry” ci sono, acquattate in penombra, arti visive, arti figurative, arti performative. C’è cinema e c’è teatro, c’è un intrico di arte e vita che passa per la declinazione irripetibile ed inconfondibile di un verbo intimo e personale, una pièce di vivido esistenzialismo in cui Marco Mezzadri, chino sulla ribalta, non recita: non interpreta il personaggio-Nero Kane, perché Marco Mezzadri è Nero Kane, col suo autentico rosario di invocazioni ad un parterre di fantasmi, viandanti, spiriti errabondi.
Dentro questi quarantasette minuti ci sono il Nero Kane che fu e quello che verrà, al crocevia con un oggi intriso di malinconia, non più soltanto cupo e disperato; qui ed ora, nel suo nido che è hortus conclusus, un mondo altro da sgretolare e riedificare seguendo l’ispirazione del momento, si palesa la siderale distanza che lo separa dal comune sentire. (Manuel Maverna)