TORRE DI FINE "Ep2"
(2025 )
In tredici anni che scrivo per Music Map, questa è solo la terza volta che succede.
E’ la terza volta in tredici anni che il disco della settimana è un ep: accadde nel 2017 con gli Scogli di Zinco, nel 2021 con Schiamazzi, ed ora con i Torre di Fine.
I motivi per i quali “Ep2”, quattro pezzi per diciassette minuti su etichetta Winter in Venice, è disco della settimana sono svariati e molteplici, ma vi basti sapere che sono tutti ragionevolmente meritevoli di menzione e di lode. Procederò disordinatamente, ché ogni tanto ci vuole libertà, e comunque sono certo che alla band non dispiacerà.
Geograficamente, Torre di Fine è una frazione del comune di Eraclea, provincia di Venezia: a una decina di chilometri a ovest c’è Jesolo, a una trentina in linea d’aria Venezia; a una decina di chilometri a est c’è Caorle, ad una ventina Bibione, per dire. Ecco: dimenticate il mood fascinoso e/o festaiolo che i nomi di quelle note località tradizionalmente richiamano. La musica del trio è molto più affine alla suggestiva desolazione – straniante e dimessa, ma non opprimente – che ho provato arrivando in macchina fino alla punta estrema raggiungibile di Lio Maggiore, in mezzo alla laguna, dove non c’è più niente.
Nati come duo circa un lustro fa, Torre di Fine sono oggi un trio, con il batterista Gianluca “Ginger” Vidotto ad affiancare i fondatori Marco Cella e Matteo Trevisan in un progetto così splendidamente fuori dal tempo. L’esordio è datato 2021, seguìto da un primo ep nello stesso anno e, nel 2023, da un monumentale secondo album dal titolo “Girl on the Shore”, perla degna di riscoperta, gemma nascosta colpevolmente passata sotto silenzio.
Sulla cartella stampa che accompagna l’uscita di “Ep2”, non scrivono i nomi di battesimo, abbreviandoli con le sole iniziali, e già questo lo trovo bello: lo facevo anche io quando suonavo, eoni fa, conserva un alone di mistero che non guasta mai (non sgridatemi, se li ho citati per esteso). Cartella stampa che, peraltro, è laconica q.b. a farmi innamorare prima ancora di avere ascoltato anche una singola nota: la sola frase “We intentionally keep press photos to a minimum […] Use pictures of the beautiful Adriatic riviera if you need” vale già il prezzo del biglietto.
Spavaldi, temerari, assolutamente indifferenti alle reazioni del mondo esterno, dall’alto del loro defilato osservatorio scrutano meditabondi l’orizzonte, infischiandosene altamente di dove tirerà la corrente, baloccandosi altresì in un cul-de-sac del quale orgogliosamente si autoproclamano sovrani: in giorni chez nous musicalmente scialbi, riempie sempre e comunque di stupita meraviglia la caparbia ostinazione di una band così schiva e ritrosa, lontana dai sentieri battuti, incurante di mode o tendenze imperanti.
Nota a margine, ma dirimente, ché sarebbe anche ora: parliamo di shoegaze in purezza, miei cari, musica che pare anacronistica, ma che ha sempre resistito indomita alla crudeltà del tempo, perché lo shoegaze ed il suo fratellino dream-pop non muoiono mai, a quanto pare. Già, lo shoegaze: racchiuso nelle corde di poche band, alcune delle quali epiche, ebbe vita breve, ma della sua breve vita il ricordo più grosso è tutto in questo suono che io mi porto addosso.
Heri dicebamus: qui abbiamo quattro canzoni in diciassette minuti, ricche di tutti i crismi che si convengono, nessuno escluso. Voci lontane sommerse da un dolce frastuono, accordi aperti, melodie inafferrabili, saturazione morbida, feedback che accarezza senza ferire, triste q.b. per cullare, coccolare, evocare ad occhi chiusi i ricordi che preferisci. Un po’ Kevin Shields, un po’ primi DIIV, un po’ i nostrani Cosmetic.
Con il determinante contrappunto vocale di Bex, presente nelle prime tre tracce, “Understatic” apre su un goloso arpeggio, prima di infilarsi in quell’adorabile intrico di carezzevole distorsione che segna tutto il resto del lavoro, tra sussurri zuccherosi, piccoli clangori distanti, repentine esplosioni di veemenza come fuochi d’artificio in notti blu scuro; il pathos rigonfio di “Gentle” ed il ciondolante caracollare di “Overbreath”, sospesa tra picchi di rumore gentile e armonie morbide, concedono il finale allo strumentale “Acquiesce”, sei minuti e mezzo che lievitano sornioni tra basse frequenze ed atmosfere languide, con un ricamo di chitarra à la Cure ed una chiusa che è un fiume in piena, irruente, non minaccioso.
Ecco perché “Ep2” è il disco della settimana: è un inno al crederci, un premio alla costanza, o forse è soltanto il mio personale, sentito ringraziamento ai Torre di Fine per avere fermato il tempo per diciassette minuti. Diciassette minuti nei quali siamo ancora tutti quanti giovani, sereni e romantici, coi capelli lunghi ed i pensieri leggeri, con licenza di guardare al futuro senza temerlo. (Manuel Maverna)