ELIE ZOE' "Shifting forms"
(2025 )
Questa non è una recensione: è una dichiarazione d’amore.
Esplicita, diretta, sfrontata.
Perché ci sono dischi e artisti che vanno oltre le categorie di giudizio abituali, dischi e artisti che ti toccano corde profonde, giù in qualche anfratto dove i generi e le disamine e le acute osservazioni non possono arrivare.
Avevo un po’ di paura, lo confesso: nutrivo una certa titubante ritrosia nell’accostarmi a queste nove tracce inedite, le prime scaturite dalla rivoluzione silenziosa. Non sapevo cosa aspettarmi: temevo di perdere ciò che amavo, ma ho avuto fiducia e sono stato ripagato.
E allora, ecco la favola bella: c’era una volta la mia cantante preferita, l’artista del mio cuore.
C’era una volta Emilie Zoé, disallineata cantautrice svizzera, con la sua Telecaster ed una penna anomala, con i suoi grandi occhi rotondi e blu ed una scrittura intensa ed obliqua, rischiarata da poche luci e velata da moltissime ombre, vestale di una musica fosca e scarna, riflessiva e cupa, in bilico costante sul precario crinale che separa la godibilità dell’ascolto dalla difficoltà del penetrarlo davvero. Da questa fonte oscura, placata e minacciosa al contempo, sgorgarono tre album e svariate altre perle sparse, fino alla transizione di genere iniziata a cavallo tra 2023 e 2024: Emilie, donna per l’anagrafe e per il mondo, anima e persona per sé, oggi non c’è più.
Nuova voce, nuove sfumature, nuove possibilità.
Nuovo nome, elie con iniziale minuscola, la stessa sensibilità di sempre.
Ottobre 2025, esce “Shifting forms” su etichetta Humus-Records, nove tracce intrise di profonda riflessione, rigonfie di sentimenti universali disciolti in un milieu così fremente, sincero e frontale da mettere i brividi.
E se uno dei temi prevalenti – la trasformazione, la sua accettazione, le sue conseguenze – era, in fondo, pronosticabile, l’altro è quasi fuori script: al di là del salto gender, l’intero album accarezza gli smarginati confini di una fiduciosa, pacificata cosmogonia pagana, cui si abbandona nella celebrazione della comunione tra esseri viventi, sublimata nella natura che tutto permea ed avvolge.
Ecco, appunto: la natura.
Lontana dall’essere il brutto poter che ascoso a comun danno impera, è altresì intesa come elemento in cui perdersi o con cui fondersi, trovarsi in armonia: la natura è uguale per tutti, non ti pone troppe e scomode domande su chi tu sia, invitandoti invece a scioglierti in essa. Vissuta in primissima persona, non assume mai sembianze minacciose, piuttosto culla ed accoglie nel suo infinito grembo, offrendo molteplici opportunità e pari dignità ai suoi figli.
In “Shifting forms” prevale la morbidezza, unita ad una solida positività di fronte ai molti interrogativi posti dalla vita: non c’è rabbia, in questi testi asciutti ed immediati, poetici quanto basta per esprimere con poche immagini e concetti altrettanto franchi e schietti una transizione che non appare mai dolorosa, quanto – piuttosto – necessaria, problematica a volte, ma parte di un processo inarrestabile. Non c’è astio, risentimento, frustrazione. Ci sono consapevolezza, fermezza, attitudine. E forse, a tratti, c’è una scintilla di amarezza, nascosta in un angolo, elemento ineludibile, parte del quadro generale, una velata, consapevole tristesse mascherata dal focus sui nomi, sul concetto stesso di nome, sul come chiamare le cose, sul designare, etichettare, definire le persone.
Musicalmente, le coordinate non mutano: guida la chitarra di elie, che si muove sinuosa, spesso in primo piano, su un registro tendente al lo-fi; ciondola, caracolla, arranca a volte, mutando pelle e direzione nello spazio di poche battute, virando in minore all’improvviso, disegnando l’abituale rock slegato, inusuale, non lineare. Ma l’album rimane gentile e pacato, melodioso e dolce, anche quando mostra i graffi che la vita lascia addosso, le incomprensioni, i dubbi, le incertezze, lo smarrimento. Compendio di spiritualità, solo di rado sporcata dal fantasma della nevrosi quotidiana, offre momenti impagabili, dal languido singalong di “Dormant plants” al trasognato pianoforte di “Pale eyes”, con un inciso memorabile ed un testo di disarmante sincerità, dall’appassionata progressione della title-track alla toccante mini-suite di “Change my name”, scossa e resa palpitante da una serie di variazioni che ne esaltano il messaggio e lo spessore etico.
Ogni colore, ogni venatura, ogni dettaglio sono essenziali per comprendere il disegno, ogni tessera del mosaico è al posto giusto, è lì a raccontare e a raccontarsi, a fornire la sua versione delle cose nel passo agitato e spezzato di “The whole of the moon”, nell’arpeggio insistito di “Contact zone”, nella quiete apparente di “Think like a mountain”. Ogni briciola di questa arte preziosa e densa è lì a ricordarci da dove veniamo senza sapere dove andremo, un messaggio in bottiglia racchiuso nel sussurro intimo e confidenziale che sospinge “How we break” al rallentatore sul ciglio della vita che verrà, poco importa se la direzione rimarrà incerta.
It makes sense/if we could invent/our names again: nomina nuda tenemus, è giusto così. (Manuel Maverna)