TROND KALLEVAG "Minnesota"
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E’ già la terza volta in pochi anni che su queste pagine scrivo – sempre ugualmente ammaliato - di Trond Kallevåg, chitarrista norvegese di area ambient/jazz/folk, e francamente non ho più un granché da dirvi, da raccontarvi, da spiegare.
Nuovamente su etichetta Hubro, affiancato da un piccolo ensemble di musicisti conterranei (la violinista Tuva Halse, il contrabbassista Mats Eilertsen, il batterista e percussionista Gard Nilssen), Trond si ripresenta con i quarantacinque minuti rarefatti e preziosi di “Minnesota”, undici tracce strumentali che ne evidenziano e ne esaltano la classe soffusa, il linguaggio intimo e raccolto, l’inesauribile ispirazione.
La trama: durante un soggiorno su un’isola dell’arcipelago di Træna, al largo delle coste a nord della Norvegia, Trond scopre una serie di scatti in bianco e nero, relativi agli inizi del Novecento, di Alma Sandoy, fotografa locale. La macchina usata è un regalo di Theodor, fratello di Alma, emigrato alle Hawaii prima che lei nascesse. Non si incontrarono mai, ma si scrissero e si tennero in contatto per tutta la vita.
Da qui, col solo ausilio di una creatività cristallina, tanto prodigiosa quanto essenziale, va in scena la narrazione visionaria di storie mute, estroso e garbato sfoggio di eleganza che fonde molteplici influenze, armonizzando generi e sottogeneri con una nonchalance naturale e spontanea, mai affettata o pretenziosa; garbata, invece, e luminosa come un cielo terso in una giornata leggera, sgombra da preoccupazioni e cattivi pensieri.
Alla maniera di Pat Metheny, di John Abercrombie, di Bill Frisell, Trond pennella abilmente soavi melodie che lambiscono il jazz ma jazz non sono (“Postmarked from Honolulu”), sfiorano il folk ma folk non sono (“The Boat song”), sgranando note in punta di slide (“Twins of Træna”, “Pretty Polly”), avvicinandosi perfino a timide atmosfere western (“Pine Ridge”), mai cedendo al virtuosismo, padroneggiando quella rara dote di introdurre l’ascoltatore alla contemplazione rapita di mondi alternativi per il solo tramite di una musica fragile ed evocativa, capace di dipingere scenari, paesaggi e panorami immaginari con l’aggraziata espressività di un acquerello.
Gli accenti della batteria, che spazzola e accompagna con misura, segnano il passo di qualche piccolo, gradito scostamento dal canone, si tratti del country truccato di “Kindness of Strangers” o del piglio irresistibile di “Lighthouse Boogie”, innocenti evasioni dal consueto mood, improntato ad una sfuggente, mite lievità.
Un’aura sottilmente malinconica pervade queste composizioni carezzevoli, morbide, confidenziali, che ben volentieri invitano al ricordo, coccolando con un calore che è al tempo stesso delizia e beatitudine, suggellando nei due minuti e poco più di “To mom”, commiato gentile e trasognato, un album intriso di stupore e meraviglia, rilassato e intenso, godibilissimo ed incantevole compendio di fascino ed apparente semplicità. (Manuel Maverna)