LOKOMORF "36am"
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Ho una certa età, e in fondo sono rimasto vecchio stile, nel senso che la roba nuova, quella contaminata, un po’ world music, un po’ afro, un po’ etno, un po’ avant, insomma, proprio non è il mio piatto di minestra. Al contempo, provo sempre un brividino quando sento l’attacco di un disco che trasmette vibrazioni indie lontano chilometri.
E uso il desueto, vituperato e vetusto termine indie a testa alta, ostentandolo anzi con una certa fierezza, come a dire: io vengo da lì, se vi pare, poi chiamatelo come volete. Sono classe ’71, esattamente come Rod Catani, bassista ed autore, una vita spesa a suonare in giro per l’Europa, padre e padrone della sigla Lokomorf, di cui è ispirazione e nume tutelare.
“36AM”, esordio sghembo ed allettante su etichetta Level Up Dischi, riunisce otto tracce intriganti ed urgenti, infarcite delle più disparate influenze, intrise di lezioni varie assorbite e mandate a memoria, filtrate da una scrittura mai banale, vivacizzate da uno scoperto gusto per il paradosso.
Provvidamente spalleggiato da Luis Martinez Marco (chitarra), Jose Marco (batteria, ora sostituito da Dmitri Nabilkov) ed Ana Vidal (voce), Catani imbastisce un lavoro impetuoso e variegato, aperto da un trittico fulminante, focoso compendio di veemenza in purezza che rimanda un’eco ben evidente di passati fasti Nineties.
Basso pulsante dritto nello stomaco, elettricità disturbata in libertà, drumming incalzante e quel “niente” finale ripetuto allo sfinimento in un’eco quasi ferrettiana definiscono “Holefatto”, opener programmatica capace di accoppiare ermetismo testuale e bordate consistenti.
“Komplexo di superiorità” prosegue a passo spedito sulla stessa falsariga, con memorabile frase di chitarra a segnare la via; “Song 4 Emilia” rincara la dose su una cadenza battente ed un sound sporco à la Not Moving, tra vestigia di punk d’antan ed altre suggestioni di marca C.S.I.
Ecco: da lì in avanti, l’album deraglia improvvisamente, mutando pelle in modo del tutto inatteso, infilandosi sornione nei cunicoli di “Suite Islandia”, delizioso strumentale scosso da vampate di distorsione ed (ancora) condotto per mano da un sontuoso lavoro della chitarra, sciogliendosi nel languido abbraccio di “Cose sbagliate”, con la voce di Ana ad accarezzare un’inaspettata melodia, tuffandosi nel divertissement a ritmo dance di “Mttlpposto”, riprecipitando nella fosca tenebra di “Evaseeon”, con rimembranze wave à la Garbo ed imperiosa coda noisy, ed infine chiudendo con la coccola pianistica a due voci di “Ode to Gagarin”, bozzetto fantasy dissolto in un larghetto orchestrale che suggella con nonchalance un disco dai molti atout, sfaccettato ed eclettico, ricco di uno strano, inconsueto, poliedrico fascino. (Manuel Maverna)