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NODO PRUSIK  "Transeunte"
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Sovraesposto e irriverente, intriso di un espressionismo spinto e virulento amabilmente off, “Transeunte” - nove tracce inedite per la fiorentina La Chute Dischi - è l’album di esordio di Elias Goddi, in arte Nodo Prusik. Progetto tanto ambizioso quanto consistente, è lavoro profondo, ricco, sfaccettato: denso come lava, con spietata franchezza sputa parole taglienti che fanno a brandelli il relitto della società as we know it: fosco ed incupito, spigoloso e pulsante, trasmette con vibrante intensità un realismo nervoso ed incombente, problematico, mai accomodante, sparso ad arte in versi spinosi che grondano ostilità e pessimismo.

Introdotta da un tappeto di bui rimbombi, “Nessuno sopravvive alla vita” apre con sette minuti di bislacco, monocorde blues sui generis tra Edda e Giovanni Succi, dispensando esistenzialismo di didascalica freddezza - dalla culla alla tomba, procedendo in rigoroso ordine - su un’algida cadenza marziale, preludio al sordo battito di “Sfondamento delle linee di difesa”, frequenze oscure ed opprimenti, spoken word minaccioso, drumming incalzante e spezzato, voce filtrata, basso slabbrato e note sgranate del synth a reggere la minimale linea melodica dell’inciso con un intento che ricorda i Cure di “Pornography”.

Sono trascorsi poco più di dieci minuti: il clima è plumbeo, l’atmosfera soffocante, le prospettive decisamente allettanti, antitesi alla leggerezza, negazione del disimpegno.

Vestigia neppure così mascherate dei migliori Afterhours scuotono la tirata inacidita de “Il fallimento”, esplicita e feroce col suo messaggio inequivocabile ed un’ipotesi di ritornello, ma lo stesso spettro ingombrante si agita fra le trame sornioni e cangianti di “Mani di gesso”, rallentamento armonioso falsamente conciliante, in realtà manifesto di risentimento verso l’ordinaria desolazione del quotidiano, e nell’incedere velenoso di “Cambia il vento”, che riecheggia l’inconfondibile sdegno beffardo di Manuel Agnelli.

La nebbia si infittisce, l’aria si fa pesante, ogni traccia è un peso sul cuore e sullo stomaco; in una escalation di veemenza e frenetica irritazione, il linguaggio si incattivisce nella metafora cruda e mortifera di “Cuore nero”, nello schiaffo rabbioso di “Coglione”, nell’amara, piccata disillusione de “Il punto di vista di Dio”, aspra e livorosa invettiva che fustiga le nostre piccole miserie socio-politiche in un registro livoroso à la Pierpaolo Capovilla.

In coda, inaspettato spiraglio regalato agli astanti per gentile concessione, rimangono i cinque minuti di “Quattro haiku”, spogli ed essenziali, confidenziali e sentiti, tremanti ed intimi, voce e chitarra e poco più a ripescare dalla memoria istantanee sbiadite che parlano d’amore, di ricordi, di cose andate a pallino, ma ben impresse nella mente, sentimenti non ancora degradati che sopravvivono intatti da qualche parte in fondo all’anima, incuranti di tutte le brutture in agguato là fuori.

Ma è un attimo fuggente, un fuoco di paglia, una coccola a sé stessi, o soltanto un’illusione sul punto di dissolversi.

Poi, ricomincia la polvere. (Manuel Maverna)