ZEA & DRUMBAND HALLELUJAH MAKKUM "In lichem fol beloften"
(0 )
Arnold De Boer – sono certo – mi perdonerà se confesso di non avere compreso una parola di queste sue nuove canzoni, ciascuna delle quali è una piccola meraviglia: ma, ahimé, sono cantate in frisone, lingua diffusa nel nord dei Paesi Bassi, di cui Arnold è originario, e io al massimo capisco l’inglese e un po’ di tedesco, mea culpa.
Però.
Però la musica è universale, sa caricarsi di suggestioni e comunicare coi suoni, siano di strumenti o di voci fatte strumento, siano archi o percussioni, corde o soffi: a nulla vale l’ostacolo linguistico, l’onda è inarrestabile, a prescindere.
“In lichem fol beloften”, usicto per Makkum Records e Subroutine Records in collaborazione con Explore the North and Popfabryk, aggiunge undici nuove perle alla collana del progetto Zea, moniker sotto il quale Arnold dispensa da tempo la sua arte preziosa e varia, così intima e così lontana dalle schegge abrasive dei seminali The Ex, dei quali è voce da oltre tre lustri.
La struttura base dell’ensemble è un anomalo quartetto formato dallo stesso Arnold (voce e chitarra), da Xavier Charles (clarinetto), da Harald Austbø (violoncello) e da Ineke Duivenvoorde (batteria), ai quali si uniscono, per metà dei brani, i sedici elementi della storica banda Drumband Hallelujah Makkum, nata centoventicinque anni orsono, nella quale Arnold iniziò a suonare da bambino e di cui fa tuttora parte l’ottantunenne papà De Boer.
Queste le doverose premesse: ciò che invece è impronosticabile e riempie di stupore ed incanto è il fluire, dolce ed ubriacante, ipnotico e suadente, di un lavoro indefinibile, sospeso tra folklore sui generis e pulsioni avant, immaginifico e poetico, crogiuolo di riposta bellezza e limpida creatività.
Aperto dai sei minuti della title track, cadenza ossessiva con accenti curiosamente memori di ancestrali retaggi blues, arricchita dal cameo del poeta Tsead Bruinja, l’album ondeggia rapito oscillando tra il passo incalzante di “de tút yn de betonnen wolken” (quasi i Sons of Kemet di “Burn”) e le toccanti, afflitte atmosfere klezmer di “komt ien oan”, tra il martellamento percussivo di “de fügel” e lo spoken-word incombente di “Makkum”.
Mai rinunciando a profondità e ricercatezza, De Boer rilegge a traduce in frisone versi di autori preminenti, dall’oscura “de Dea” (“De dood”, ossia “La morte”, opera dell’olandese M.Vasalis) alla già citata, struggente “komt ien oan” (tratta da “Kommt einer von ferne” della tedesca Nelly Sachs), toccando vertici di fremente lirismo nella melodia avvolgente di “pine en tiid – I”, nobilitata dai vibranti ricami del violoncello, nel crescendo congesto di “ik tel dyn bonken op”, nella marcia marziale di “pine en tiid – II”, nella velata melanconia a due voci di “wer in dei teinen”, screziata dalle dissonanze degli archi.
In coda, nuda e spoglia, esile e tenera, caracolla la fanciullesca melodia naif di “suze nane poppe”, sfuggente ninna nanna senza tempo che scioglie nel suo pacifico grembo ogni residuo timore, suggellando con un morbido abbraccio un album a tratti entusiasmante, emotivamente intenso, palpitante, appassionato. (Manuel Maverna)