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MARCO GIONGRANDI  "When birds call in the darkness"
   (2025 )

Una chitarra acustica, una voce, qualche percussione e dei piccoli fondali di tastiera, e otteniamo il delicato mondo sonoro di Marco Giongrandi.

Italiano emigrato dal 2015 a Bruxelles, Marco è chitarrista, banjoista che suona anche dei Dear Uncle Lennie, oltre che in molte altre formazioni.

In questo album solista presenta otto canzoni introspettive che raccontano di quotidianità in maniera pensierosa ed emotiva. Il titolo dell'album, “When Birds Call in the Darkness”, proviene dal brano di apertura, “Maria and the Sea”. Accompagnato da un video fatto di mare, aquiloni e luna gibbosa, il brano invita la piccola protagonista a non piangere, pensando che da adulta ci saranno veri motivi per farlo: “Hush you little darling / save all this moaning for when you'll be grown”.

Se si sente persa, Maria può cercare un senso nella natura: “Please let in the mountains the sea the fish the smell of the air (…) the path between this cliffs might lead your wheel”. Ma la strofa finale ci porta al titolo dell'album, dove questi uccelli che cantano durante la notte fanno scaturire una riflessione opposta, dall'altro lato dell'età: “And when the sun is going to fall / and birds call in the darkness / then we will recall / that all men / with their faults / with their sea were kids at first”.

È un'immagine riconoscibile, in questo caso l'inglese rende meglio: “relatable”. Quando vediamo un bambino piangere per una cosa da poco, prima di ammonirlo per il capriccio ci rivediamo in quella piccola frustrazione che abbiamo conosciuto tutti. Ecco, questo è il piccolo mondo intimo che si sviluppa nei versi di Giongrandi.

“Drawings” ci dà altre fugaci impressioni, tra balconi, strumenti per dipingere e aspettative deluse: “the balcony on the skyline (…) stare at the clouds (…) just paint and brushes on the table (…) I realize that I was not what I expected her to be”. Per la consapevole “We'll be Leaves”, accanto alla chitarra si aggiunge una ritmica battuta con le mani.

Finora gli arrangiamenti sono tutti essenziali, al limite dello scarno, per far percepire il legno della chitarra, il calore del suono acustico. Con “Nightwalk” arrivano delle note di chitarra elettrica e dei suoni di synth panoramici, per portarci in questa camminata nel buio che inizia con: “I'm falling nowhere”.

L'insicurezza nel riconoscere le proprie emozioni è centrale in “The Doors and the Book”, mentre un suono di flauto di pan di tastiera accompagna “Long Wait”, una canzone che, come quella d'apertura, dice a qualcuno di fare qualcosa, salvo poi ammettere che pure il protagonista non si è mosso molto. Gli chiede di muoversi per liberarsi dai pesi esistenziali: “So don't wait, don't stay don't feel no sorrow (…) 'Cause on the way my weight was mislaid [lungo la via il mio peso è stato smarrito]”. Ma alla fine non vuole ammettere che anche lui è stato fermo: “I don't want you to know how long I wait”.

Come fosse una risposta alla canzone precedente, “Graveyard” sembra far pensare a qualcuno che ha aspettato troppo! Questa canzone è ambientata in un cimitero, a guardare le persone che cercano di ricordare com'era la vita con i loro cari presenti.

E infine l'album si chiude con “Those Things”, una di quelle cose difficili da definire (“I can barely recognize”) ma che ci fanno soffrire. Una malinconia astratta, sulla quale per questo possiamo proiettarci cosa ci blocca.

Marco Giongrandi non ci dà risposte, ma racconta le sensazioni della propria vita, cercando altre anime che vibrino alla sua stessa frequenza. (Gilberto Ongaro)